Vita degli elfi non si sa dove metterlo. Non mettiamolo da nessuna parte. Mettiamocelo in testa.
Partendo da questo presupposto saltiamo tutta quella parte in cui cerchiamo senza successo di decidere se è o no un fantasy, se è o no bello come i precedenti dell’autrice (capolavori o delusioni che siano), se è o no più realistico che onirico. Più che altro perché non ce ne frega niente a conti fatti. L’unico dualismo che interessa, in base alle mie convinzioni di lettrice, è quello che sta dentro tutto il libro spargendosi su diversi piani. Cominciamo da bene e male. La lotta tra bene e male ne parliamo da sempre, si sa. Forse è uno degli assi portanti della storia del vivente, come ABC. Siccome nessuno la sa risolvere in termini di massimi sistemi, allora la raccontiamo in rinnovate vesti. Come si fa qui, appunto.
Ci sono Maria e Clara. Al seguito, un mazzo di personaggi tutti tondi davvero singolari e di cui ricorderete ogni dettaglio. Angèle ad esempio è stipata di corpetti e gonne e sottogonne da pagina quarantaquattro e io me ne ricorderò per anni. Ci sono vegliarde dal rosario facile, e con vegliarde s’intende vegliarde vere a suon di primavere giù per gli ottanta passati, un curato un filo turbato, Petrus il rosso col doppio mento, il Maestro con la M maiuscola, elfi, animali, unicorni, verde. Eccetera. In una frase puoi vedergli il colorito della faccia. Di una vegliarda appena ottantunenne, per il tono in cui si dice, potresti dire a quanti anni ha dato il primo bacio (se ha dato il primo bacio mai). Clara e Maria invece sono due portali. Ne conosci gli occhi, i colori, la grazia. Ma è più quello che ti fanno vedere attraverso i loro occhi che è in rilievo, più di loro persino.
Maria e Clara sono due creature incantevoli, adottate ad appena qualche vagito d’età, a chilometri di distanza una dall’altra, rispettivamente da un parroco e da una famiglia contadina. L’una sta in Francia, bucolica culla, l’altra in Italia, arte da ogni spiffero. Poi ci sono i due mondi: gli umani e gli elfi. Uno senza l’altro non riusciranno a vincere la lotta in arrivo tra gli elementi base. Il bene e il male sono gli elementi base, ma questo lo avevamo già detto. Con loro la natura e la cultura – ed eccoci a un altro dualismo, per continuare -, dove con cultura s’intende, anche, il tavolo ricavato dall’albero. Nel senso: qui un albero è un albero, un tavolo, un pianoforte, un sostantivo, dunque anche un simbolo (di controllo, evoluzione ed espressione creativa). La natura che può e la cultura che vuole potere sono la scintilla per qualsiasi possibile distruzione. Clara e Maria sono la chiave, la possibilità, la sintesi. Perché succede che l’armonia un giorno si spezza, la natura decide di rispondere col caos e gli esseri umani, come da copione, producono odio e violenza (quelli che votano male, poi ci sono anche i buoni).
Non so bene cosa cerchiate dentro un libro, qui secondo me è un po’ come se un pastore del presepe (vale per la pastorella anche) si svegliasse in un luogo senza tempo (di tutti i tempi quindi), circondato da panorami bucolici, frutti e fiori da Canestra di Caravaggio ed eroine uscite da un incrocio tra il candore talvolta disturbante della Clara di Heidi (se me la ricordo bene), il tocco lenitivo delle creme antidolorifiche e l’aura di santità che solo essere le prescelte può donare (più i superpoteri e qualche arrampicata sugli alberi nella purezza anagrafica dei dodici anni).
Il terzo protagonista indiscusso è il linguaggio: creato esattamente a immagine e somiglianza di ciò che esprime. O viceversa, non so. Una prosa colma di lirismo. C’è questa cosa per cui il registro è intriso di perfezioni formali, dettagli ricercati, parole pesate che in fila per tre hanno il peso specifico perfetto di un elemento chimico. Qualcosa mi è sfuggito, lo ammetto, ma con coerenza. Dovendo scrivere la cosa a mano, immagino dei ricci e una tendenza all’inclinazione verso ovest di ogni singola lettera, con le maiuscole molto alte. L’unione del tutto è come una sinfonia inedita le cui parti funzionano insieme, scritta da qualcuno che conosce gli umori di una nota, la storia del nome di Do, che ha ascoltato mille altre sinfonie e distingue la parte di sette strumenti, così da poter mettere insieme sistemi diversi e farli suonare. A volte il ritmo è veloce, altre rallenta. Non so dire esattamente dove andrà a finire nel mio immaginario, ma per citare: Bisogna fidarsi delle musiche e delle poesie. Perché da capire non c’è niente. E se c’è, va per osmosi. A forza di fare la guerra ci si distrae dalla bellezza. Si finisce per non saperla più riconoscere. M’immagino una foglia triste disintegrarsi da sola per il dispiacere di non essere vista (nel nostro immaginario si capisce, per il suo resta dov’è). Chi sa immaginare può distruggere, chi invece celebra la bellezza di quel che vede può vivere di pace, mi sembra di sentire. Magari abbinata alla giusta sintesi tra le cose, mi viene da aggiungere.
Secondo me ha ragione chi dice che la bellezza salverà il mondo, in un certo senso. È così. Per forza. La Barbery lo sa di sicuro. (poi nel prossimo libro vediamo come va a finire).
Licia Ambu, un giorno d’estate
Edizione esaminata e brevi note
Muriel Barbery è una scrittrice francese. Con il suo secondo romanzo, L’eleganza del riccio, è diventata famosa in tutto il mondo. Vita degli elfi è il suo primo fantasy, uscito a gennaio del 2016 per le edizioni E/O.
Muriel Barbery, Vita degli elfi, traduzione di Alberto Bracci Testasecca, Edizioni E/O, 2016.
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