Controversa Palma d’oro al Festival di Cannes, Il nastro bianco è un’opera che consente all’austriaco di origine tedesca Michael Haneke di tornare ad indagare l’aberrazione umana dal punto di vista delle relazioni che si creano in un particolare contesto, utilizzando il metodo dell’antropologo che va a ricercare l’origine e l’identità del male senza per questo volerne spiegare palesemente le motivazioni. Se facciamo un passo indietro, ai due Funny Games e a Niente da nascondere, possiamo notare confermato questo approccio che ne Il nastro bianco addirittura si fortifica – un orrore non visivamente manifesto, decisamente più agghiacciante – e che nella fattispecie si fa maggiormente insinuante nel voler individuare sia l’origine che i futuri approdi del male. Sì perché è proprio questo il punto dove Haneke non convince, rispetto a opere passate, nella sua lettura pretestuosa e nell’immaginare eventi che porterebbero alla degenerazione di un’intera nazione, contestualizzandoli peraltro in un paesino rurale di poche anime. La tesi del regista monacense, individuata da molti senza particolare difficoltà, è quella – in buona sostanza e senza tanti giri di parole – che le origini del nazionalsocialismo vadano ricercate nella rigidità educativa protestante della Germania alle soglie del primo conflitto mondiale. Di più, Haneke ci lascia capire che il germe è già vivo nei bambini, tutti probabili futuri soldati del Reich, un domani convinti del concetto di superiorità morale-razziale e di altre amenità assortite. Una tesi molto pretestuosa, per innumerevoli motivi che brevemente nel corso della critica cercherò di portarvi ad evidenza, di cui però nessun autorevole recensore pare essersi accorto. O meglio, tutti hanno capito dove Haneke andava a parare, ma nessuno ha levato critiche in merito. Questo perché, come tutti saprete, direttamente o indirettamente, della Germania nazionalsocialista se ne può parlare basta che se ne parli male, che la si ridicolizzi o che se ne annientino le vere radici storiche, le motivazioni reali per le quali una nazione così importante e piena di risorse intellettuali abbia abbracciato un’ideologia che l’ha portata in pochi anni dalla ripresa economica e sociale all’abominio, fino all’inevitabile sconfitta in guerra. Fuori da queste considerazioni di carattere storico, il film di Haneke ha però molti pregi estetici, tanto da farmelo ritenere, da questo peculiare punto di vista, il migliore dei suoi. Prima di addentrarci nella duplice analisi che vi propongo, riassumiamo brevemente gli snodi essenziali.
Germania del nord, 1913-1914. Un villaggio protestante è testimone, lungo l’arco di un anno, di strani e inquietanti eventi. Salvo il primo incidente al medico della comunità, nei restanti casi sono protagonisti i bambini. L’educazione religiosa è severa, e la vita nei campi è molto dura. Le famiglie sono numerose e quasi tutte vivono del sostentamento economico dato dal barone, proprietario terriero. La rigida e monocorde vita del luogo è guardata con occhi diversi solo dal maestro, che si innamora della bambinaia a servizio dal barone, presto comunque costretta a corrispondergli da un’altra cittadina perché allontanata dal lavoro. Gli strani eventi, tra cui in incendio e la distruzione di un raccolto, scuotono l’inerzia di una comunità che comincia ad aver paura ma che non trova nessun indizio che inchiodi il responsabile. Dopo la vicenda più disturbante, ovvero le sevizie subite da un bambino con handicap creduto figlio illegittimo del medico, il maestro incomincia a intravedere un’inquietante verità: i bambini sono vittime o carnefici? O ambedue le cose insieme?
Come dicevo in apertura, un film a tesi; sottilissima ma così evidente, tanto evidente che non si può non determinare l’approdo ultimo della vicenda immaginata da Haneke: quei bambini marceranno sicuramente al passo dell’oca, perché minati dai germi dei padri. Troppo facile e troppo comodo sarebbe spiegare un evento come l’ascesa al potere – inizialmente democratica, lo ricordo agli smemorati – di Adolf Hitler con la follia di massa conseguenza di una educazione rigida. Solo per dirne un paio: e la Prima Guerra Mondiale dove la lasciamo? Le deprivazioni imposte alla Germania dopo il conflitto? E Weimar, sì, soprattutto Weimar, dove la lasciamo? L’inflazione, la povertà, l’umiliazione di un popolo dove le lasciamo? Ecco da dove nasce il Terzo Reich, da fatti molto concreti e a tutti visibili, non dalla follia dei padri né tanto meno – tesi ancor più ridicola, ma ancora molto in voga – dalla follia di un uomo solo. Come si può pensare una grande nazione così stupida e debole di spirito? La Germania poi, erede della grande Prussia, il cuore pulsante dell’Europa che proprio in quegli anni partorì le più grandi elités culturali e intellettuali della prima metà del Novecento. Sveglia! E lo dico a tutti coloro che si fanno abbindolare e rassicurare da tesi tanto artificiose quanto bislacche. Basta leggere la storia per capire certe dinamiche. E qui mi fermo, perché stiamo analizzando un’opera cinematografica di due ore e mezza che dal punto di vista artistico ha detto molto altro, di sicuramente più rilevante e interessante.
A metà tra estetica bergmaniana ed espressionismo tedesco degli anni Venti e Trenta, Haneke costruisce un’opera glaciale, rarefatta, algida nell’emozione e nelle forme. L’uso del bianco e nero, che in alcuni momenti sfuma o accresce addirittura le sue tonalità, richiama proprio l’atmosfera e l’essenzialità dei capolavori del maestro Ingmar Bergman, allontanandosi efficacemente da compiacimenti minimalisti. Il regista monacense lavora per sottrazione e in ciò trova la modalità migliore per restituire il mistero di un orrore sordo e invisibile, nascosto nell’interiorità dei personaggi sulla ribalta. Pochi ed essenziali i movimenti di macchina: moltissimi primi piani, in particolare dei bambini, suggestivi come quadri che invitano all’indagine di ciò che in loro – nelle loro espressioni contenute – può germinare malignamente. È costante in Haneke l’uso di piani sequenza molto statici, tutto vuol ricondurre a una sorta di pulizia e ordine esteriore apparente, a far da contrasto ai vizi privati – il medico che molesta sessualmente la figlia, il barone in crisi matrimoniale – e ad avvalorare la tesi che l’ordine cieco e il dogma sono alla base delle degenerazioni umane. Anche i dialoghi rendono limpidamente questa scelta estetica e narrativa, descrivendo impietosamente il rapporto uomo-donna e l’assoluta misoginia (e ignoranza) che caratterizzava quel contesto di tipo rurale. Bravi anche gli attori, bellissima la fotografia, vero punto di forza della pellicola.
A conti fatti, ciò che davvero non convince della storia raccontataci da Haneke è proprio la sua sostanza, la sua impossibilità e al tempo stesso pretesa di farsi paradigma del “male assoluto” o presunto tale, la sua inconsistenza storico-sociale, la sua marcata impostazione ideologica. Un vero peccato perché la forma, come ripeto, è davvero affascinante e i tempi dilatati sono miracolosamente in equilibrio con l’estetica. Non ci si annoia, si segue tutto con vivo interesse. Ma se è vero che nell’arte forma è sostanza è vero anche che alcune volte non si può sorvolare sui motivi di un film, soprattutto se una pellicola è strutturata interamente su una tesi forte come quella in questione, pur abilmente nascosta tra le righe. Che poi Haneke abbia i suoi santi nel paradiso di Cannes questo non è un mistero per nessuno, visti i premi ricevuti nel 2001 e nel 2005, rispettivamente per La pianista e Niente da nascondere. Quello che posso ragionevolmente immaginare, rispetto a Il nastro bianco – opera a cui Haneke lavorava da circa 10 anni e che inizialmente era stata pensata in più puntate per la TV tedesca – è che il regista monacense vive, al pari della stragrande maggioranza dei suoi connazionali, le colpe dei padri come un marchio morale ancora indelebile: i tedeschi sono proprio i peggiori, i più irragionevolmente critici e assolutamente meno convincenti quando raccontano della loro “innominabile” storia recente. Tutto quello che vi pare, ma c’è chi ormai si è rotto. C’è chi non vuol sentirsi rassicurato vedendo ogni volta che si spara pretestuosamente, tanto per lavarci un po’ tutti la coscienza, sul male assoluto di turno, che siano nazisti o talebani, o quel che volete voi. C’è chi vorrebbe capirne di più, e chi come me vorrebbe vedere un cinema – e un’arte contemporanea in genere – maggiormente libera da lacci ideologici e da spauracchi morti e sepolti che non ha più senso presentare in un modo che, volendo raccontare il tragico, sfiora tragicamente il ridicolo involontario.
Federico Magi, novembre 2009.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Michael Haneke. Soggetto: Michael Haneke. Sceneggiatura: Michael Haneke, Claude Carrière. Direttore della fotografia: Christian Berger. Montaggio: Monika Willi. Scenografia: Cristoph Kanter, Anja Muller, Heike Wolf. Costumi: Moidele Bickel. Interpreti principali: Christian Friedel, Ernst Jacobi, Leonie Benesch, Ulrich Tukur, Ursina Lardi, Fion Mutert, Michael Kranz, Burghart Klaussner, Staffi Kuhnert, Leonard Proxauf, Maria-Victoria Dragus, Levin Henning, Johanna Busse, Yuma Amecke, Josef Bierbichler, Rainer Bock, Susanne Lothar, Marisa Growaldt, Eddy Grahl, Miljan Chatelain, Aaron Denkel, Stephanie Amarell, Detlev Buck. Musica originale: Philip Glass. Produzione: X Filme Creative Pool, Les Films du Losange, Wega Film, Lucky Red. Titolo originale: “Das weisse Band”. Origine: Germania / Austria / Francia / Italia, 2009. Durata: 144 minuti.
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