Buzzati Dino

La boutique del mistero

Pubblicato il: 30 Luglio 2013

Dino Buzzati è un grande e atipico autore del nostro Novecento, dall’opera molto vasta ed eclettica, in parte non ancora scandagliata a sufficienza. Per tutta la vita Buzzati lavorò come giornalista al “Corriere della Sera” – la fortezza Bastiani de “Il deserto dei Tartari”- ma i suoi lavori letterari spaziano attraverso il romanzo, i racconti, le inchieste, l’aforisma, la poesia, la favola, il testo teatrale, amò inoltre la pittura e l’illustrazione. Ingiustamente ignorato o disprezzato dalla critica, Buzzati pagò per lunghi anni con l’isolamento e la solitudine il suo rifiuto di appartenere a gruppi o correnti, il suo distacco dal realismo e dall’ideologia a vantaggio di un’acuta e profonda osservazione della natura umana con i suoi vizi e le sue virtù.

La boutique del mistero” (1968) è una raccolta di racconti curata dall’Autore stesso, che vuole così far conoscere il meglio della sua produzione. Si tratta di testi piuttosto brevi e vari, che ruotano attorno al mistero, al surreale, al fantastico, all’angoscia per la malattia incipiente, al senso della morte, alla precarietà della condizione umana.

Buzzati mostra di conoscere molto bene le reazioni e i sentimenti umani e di saperli oggettivare in storie e personaggi, a volte struggenti come la madre e il figlio ne “Il mantello”. Qui un giovane partito per la guerra, torna improvvisamente a casa dalla mamma, ma rimane pochissimo, giusto il tempo di un saluto. Non si toglie mai il mantello, mentre fuori lo attende un misterioso personaggio oscuro. Il dialogo tra la madre e il figlio è molto semplice e commovente, la donna si illude che il giovane sia tornato per sempre, invece poco per volta comprende la tragica verità: il personaggio misterioso è la morte, che ha concesso al ragazzo di dare un ultimo saluto alla madre, prima di portarselo via per sempre. L’amore e l’affetto riescono per un attimo a superare anche la morte.

Inquietanti per il senso di ignoto e di angoscia sono “Eppure battono alla porta” (quale capacità hanno gli uomini di illudersi e di negare persino l’evidenza!), “I topi”, “Il colombre”, storie di allucinazione e stranezza, con atmosfere degne di E.A.Poe. La strana goccia d’acqua che sale le scale ne “La goccia” ha invece qualcosa d’inquietante quanto le macchie e le muffe di Lovecraft.

Ne “I sette messaggi”, che narra la vicenda del principe ereditario che parte per conoscere tutto il regno e finisce per non trovarne i confini, ci rivelano da un lato il desiderio di continua conoscenza dell’uomo, dall’altro il senso d’inquietudine che l’irraggiungibile trasmette.

Un altro tema frequente è la paura della malattia – angoscia ricorrente nello stesso Buzzati – sia essa la lebbra come in “Una cosa che comincia per elle” o il male indefinito che conduce alla morte Giuseppe Corte in “Sette piani”. Qui l’organizzatissimo edificio della casa di cura, con i suoi meccanismi tanto ordinati quanto inesorabili, sembra stritolare poco a poco lo sfortunato protagonista che, entrato con la certezza di uscirne in breve tempo, finisce nel reparto dei moribondi, incredulo e angosciato. Il richiamo a Kafka viene quasi spontaneo, sebbene Buzzati non amasse essere confrontato con l’autore praghese e rivendicasse a ragione una sua autonomia.

Il senso della morte e la sua oscura presenza, questa volta tra gli animali, si svelano anche ne “Il tiranno malato”, storia della fine del terribile mastino Tronk.

I tre avevano intuito che a Tronk doveva essere successo qualche cosa e non c’era più motivo di temerlo. Ma credevano di addentare un cane vivo. E invece l’odore insolito del pelo, forse, o del fiato, e il sangue dal sapore repellente, li aveva ributtati indietro. Perché le bestie più ancora che i luminari delle cliniche percepiscono al più lieve segno l’avvicinarsi della presenza maledetta, del contagio che non ha rimedio. E il lottatore era segnato, non apparteneva più alla vita, da qualche profondità recondita del corpo già si propagava la dissoluzione delle cellule.” (p.150)

Il male emargina, allontana e, con i suoi tristi corollari, è preludio alla morte.

Il senso della fine e dell’aldilà assume però anche altre dimensioni, che possono virare verso l’ironico o verso un tono favolistico. Troviamo così “La fine del mondo”: “Un mattino verso le dieci un pugno immenso comparve nel cielo sopra la città: si aprì poi lentamente ad artiglio e così rimase immobile come un immenso baldacchino della malora”. (p.82)

Gli abitanti della città corrono disordinatamente a confessarsi, perdendo ogni dignità e ritegno, in preda a una paura superstiziosa e incontrollabile. Persino il povero pretino preso d’assalto dai forsennati penitenti è una figura caricaturale, che finisce per maledirli, perché lo defraudano della salvezza dell’anima.

Gustoso caso di creduloneria collettiva e di mistero è invece quello che “Il cane che ha visto Dio”, dove la sola apparizione ricorrente di un cane che – si dice – abbia visto Dio, per esser stato a lungo a contatto con un pio eremita, un sant’uomo che invano aveva pregato per la salvezza di un intero paese di bestemmiatori e miscredenti – è sufficiente a provocare una sorta di conversione collettiva, dettata più dalla paura che da un autentico cambiamento.

Deliziosi sono altri due racconti sulla presenza del sacro.

Il “racconto di Natale” è tutto giocato sulla presenza di Dio come amore da condividere: ogni volta che uno dei personaggi rifiuta di condividere Dio con chi glielo domanda, il Signore scompare improvvisamente, rendendo tenebrosa e triste la realtà.

Inutile cercare Dio in lungo e in largo e vano illudersi di possederlo in esclusiva, questo Dio misterioso sembra rivelarsi solo nell’amore. È un racconto pieno di poesia e di rispetto, come pure l’aggraziato “I Santi”, il cui incipit ci trasporta già in un paradiso a dimensione umana, quasi da devozione popolare:

I Santi hanno ciascuno una casetta lungo la riva con un balcone che guarda l’oceano, e quell’oceano è Dio. D’estate, quando fa caldo, per refrigerio essi si tuffano nelle fresche acque, e quelle acque sono Dio”. (p.152)

In questo paradiso così ben organizzato giunge anche il tenero san Gancillo, un santo minore che aveva fatto il contadino per tutta la vita e, dopo duecento anni, finalmente era stato assunto alla gloria degli altari. Al suo paese però, dopo un primo entusiasmo, si erano presto dimenticati di lui a vantaggio del più noto san Marcolino, patrono con tanto di sontuosa cappella, accanto alla quale viene costruito l’altare di san Gancillo.

In paradiso arriva anche la posta (richieste di grazia, preghiere), ma san Gancillo non ne riceve mai e ha la sensazione di “mangiare il pane dei santi a tradimento”. Decide così di provare a realizzare un piccolo miracolo, ossia di far muovere gli occhi al suo ritratto nella chiesa del paese. Proprio in quel momento si trova lì davanti lo scemo del villaggio, che si mette a gridare al miracolo. Contemporaneamente tre santi si presentano da Gancillo per spiegargli che non è il caso di fare miracoli così frivoli, poco graditi in alto loco. Gancillo smette subito e ne pensa un’altra: fa spuntare una bellissima rosa dalla pietra della sua vecchia tomba ormai abbandonata. Il cappellano la vede, ma la scambia per un’erbaccia e la fa estirpare.

Gancillo allora ridona la vista al primo cieco che passa davanti al suo altare. Tutti però attribuiscono il miracolo a san Marcolino, che ha la cappella lì accanto. Così Marcolino viene portato in processione e Gancillo lasciato lì.

Il povero santo si rassegna, ma una sera riceve la visita di san Marcolino, un pezzo d’uomo esuberante e allegro, in realtà molto meno santo di lui. I due chiacchierano e Gancillo invita a cena Marcolino.

Allora sopra il fuoco Gancillo mise la pentola piena d’acqua per la zuppa e, in attesa che bollisse, entrambi sedettero sulla panca scaldandosi le ginocchia e chiacchierando amabilmente. Dal camino cominciò a uscire una sottile colonna di fumo, e anche quel fumo era Dio”. (p.157)

La storia è narrata con una stupenda grazia e uno stile chiaro, con quella comunicativa che sembra contraddistinguere il Buzzati migliore. La lingua semplice, la parola consueta, la costruzione sintattica immediata si possono rivestire di richiami evocativi del mistero e del surreale.

Un cenno meritano due paesaggi che ricorrono in Buzzati: la montagna e la città. Se qui la montagna, appena accennata, sembra essere il luogo degli eremiti in odore di santità, la città, pur avendo un suo fascino, specie al tramonto, è il luogo dei suicidi (“Ragazza che precipita”), dell’indifferenza, del lavoro, della smania di grandezza umana (“La torre Eiffel”).

Ciascun racconto poi meriterebbe un particolare approfondimento tematico, in sintesi si può affermare che qui Buzzati ha voluto dare un’antologia del suo meglio e una panoramica su molti argomenti ricorrenti nella sua opera.

Articolo apparso su lankelot.eu nel luglio 2013

Edizione esaminata e brevi note

Dino Buzzati (San Pellegrino-Belluno 1906- Milano 1972), scrittore e giornalista italiano.

Dino Buzzati, La boutique del mistero, Milano, Mondadori 2000.

Link: http://www.geocities.com/athens/delphi/8892/

http://it.wikipedia.org/wiki/Dino_Buzzati