Monteverde è il terzo capitolo della Trilogia dell’Identità di Gianfranco Franchi, disoccupato malato di Letteratura e lettura in generale – riesce a leggere trecento libri l’anno, sarebbe l’orgoglio degli psichiatri più snob – che vaga tra il sogno e la delusione, guerriero armato di latinismi e melodie rock, arrabbiato perché è la vita dei mortali che dev’essere rivoluzionata. C’è un senso di disperazione talmente radicato nella scrittura che sfocia nel gergale “ridere per non piangere”. Ed ecco allora il primo, satirico, divertente, beffardo “Fusillo” dove il giovane Franchi lo si immagina con gli occhi sbarrati e un mezzo ghigno, con le braccia in tono di sconfitta, prendere in giro tutto: idraulico, cucina, la propria borghesia in disfacimento radicata nelle pareti di casa e negli interruttori, e il capro espiatorio: il fusillo. Il povero in questione si fa carico del tono irriverente con cui Franchi prende in giro se stesso conferendo al piccolo oggetto inanimato pretese che sono tutte umane – nell’accezione più negativa possibile. Ed ecco che una mente priva di senso dell’umorismo potrebbe conferire presunzione a certe frasi che sono l’esatto opposto. Anche nel parlare della propria libreria, e di come dovrebbe essere una che aspira ad essere tale, Franchi divaga: è un modo per esporsi, un compiacimento atto a sviare ancora una volta. È di un sarcasmo sottile e adorabile. Eppure si sente che nel fondo, là sotto in cui è sepolto quel cellulare tutto fare, ancora più in fondo c’è l’anima (lo stato d’animo) di Franchi. Il tono tragicomico continua con brani di un’eleganza sperimentale di joyciana memoria con note di toccante malinconia, altre che virano sul tasto della frustrazione, specie in ambito lavorativo, per sfociare in canti di lotta in favore di calciatori/guerrieri/rocker in un amalgama che è insieme ricerca di: territorio, partecipazione, rivendicazione del passato. Monteverde, la Roma, le scoperte musicali di un’adolescenza violata dalla consapevolezza di un presente troppo nero; inimmaginabile. La rabbia per le ingiustizie della vita, per le scorrettezze e le bassezze dell’animale uomo – una per tutte l’atteggiamento squallido del capo dell’Otp che ci prova con i ragazzini, che getta un’ombra di atroce realismo sul dietro le quinte della ribalta – quasi a confermare che l’unica cosa positiva che gli esseri umani siano stati in grado di fare sia quell’affascinante e a volte incomprensibile miracolo di eleganza e musicalità che è il miracolo dell’Arte.
Una tesi di profondo pessimismo, reso saggiamente col tono dell’ironia, dove ogni lato della vita sembra incrinato, se non tutti: parecchi. L’infanzia che termina col concetto di caducità, l’amore materno perduto e mai ritrovato nelle future compagne di viaggio femminili, l’orrore verso l’ottusità delle nuove generazioni. La sezione “Donne” è probabilmente la pagina più riuscita e lirica di tutto il volume. Il montaggio alternato tra Franchi in terrazzo che annaffia le piante e il dialogo (l’ultimo?) con la ragazza, è di per sé un’immagine da incorniciare nella memoria. E la risposta è: l’alcol.
Per chi conosce Franchi da vicino il fascino è di certo differente rispetto a chi lo legge per la prima volta, senza nemmeno sapere il volto di chi scrive (o legge, a voce alta!, chissà che sia la volta buona che incida il suo own reading). È differente se conosce i volti di cui parla o se ha già scorto il colore della cucina o le maniglie delle porte. Accade nella testa quel che succede per chi vede un film tratto da un romanzo che già conosce: tende a notare le differenze, l’interpretazione che Franchi sa dare di una realtà nota anche a chi sta da questa parte. E come chi solo sa essere onesto da riconoscere che il cinema e la letteratura siano due linguaggi differenti, così è ancora più veritiero ammettere che Letteratura e Percezione visiva (non realtà, si badi) vadano per due percorsi diversi. Conoscere Gianfranco di persona è viverne una percentuale, leggerlo è filtrare le nostre conoscenze acquisite tramite i suoi occhi, o meglio, per mezzo delle parole che compone la sua mente. Sarebbe come chiedersi in che modo una persona estremamente sensibile assorba le informazioni di quella miriade di testi, autori, pensieri che ogni giorno attraversa, memorizza. E se è vero quanto qualcuno diceva, “negli angoli di casa cerchi il mondo, nei libri e nei poeti cerchi te”, Gianfranco dà tutto se stesso per ritrovarsi, per ricomporsi e nutrirsi dell’intelligenza di anime talvolta dimenticate, in un continuo e incessante cannibalismo che non ha pace e forse mai l’avrà. La smodata necessità di sguardi nuovi, parole e concetti, si materializza nel fiume che compone Monteverde, drenato da piccoli ponticelli che ne sono i capitoli, come se delle pagine potessero mettere ordine al flusso continuo di ricordi, rielaborazioni e donazioni. Franchi dona se stesso sul duplice registro del detto e del celato: a volte viene più in superficie quel che nasconde, tal’altre si resta di sasso per quel che ci inonda. A differenza delle altre due raccolte, Disorder e Pagano, questo New order (tale era il titolo originario) è il momento in cui si riordina la stanza e si ripongono i libri al proprio posto. È l’atto di deframmentazione in cui i celeberrimi nodi si intrappolano nel pettine: tra una confessione rabbiosa e un’altra innocente, fra una dedica d’amore e appartenenza e un mortacci lanciato dal profondo del cuore, Gianfranco si spoglia e ci dice che questo è e nient’altro potrebbe essere. È una metafora sulla carta, inchiostro che il tempo forse laverà via o rimarrà nell’inconscio di qualche lettore distratto. È la telefonata improvvisa di una vecchia strega. È un cane luciferino dagli occhi gemelli, diversi nella loro concezione della morte. Ed è uno dei pochi letterati che restituisce dignità a tematiche generalmente al di là delle arti – non l’arte contemporanea che non ha barriere e non disdegna le passioni – specie quelle umanistiche, di forte connotazione (dipendenza) accademica: ed ecco che Jeff Buckey e Peppe Giannini entrano in un libro che non è letteratura di genere. Non è saggistica né indagine di cronaca, è una sacrosanta dichiarazione di poetica. Già Gozzano demoliva i fasti delle Lettere, rimarcando un senso di individualità che non è orientamento verso il basso. È l’opposto, Gianfranco Franchi non vuole andare incontro a qualcuno, non cerca un argomento popolare: il Calcio non è uno strappo alla regola, è un tassello del mosaico. Che si ricompone in una delle variegate facce del suo io. I racconti di Gianfranco sono la rielaborazione letteraria di un modo di vivere fuori da ogni contesto: pecora nera della famiglia, del palazzo, l’anima che trova conforto fra gli spiriti di Monteverde, il cuore sregolato di Roma, il quartiere degli artisti. Pasolini è solo il più famoso ma è quanto di più distante ci sia, come lo è Bertolucci. Franchi si accomuna più al “libraio di via Fonteiana”, che lotta con lui in nome del mantener vivo il cuore culturale della città quartiere. Monteverde è la sua Roma, la fetta di romanità del suo sangue: in fondo egli è un provinciale, di origini lontane, scomparse dalla cartina geografica politica (quella colorata che tutti abbiamo pasticciato da piccoli) e questo ne aumenta il fascino ma anche un senso di irrimediabile irrisolutezza. L’identità di Franchi non esiste più, è letteraria e l’unica Patria è davvero quell’insieme di Patrie Lettere che da feroce lettore va divorando, come la Fenice, in un’inesausta ricerca del Tempo Perduto, ancora da ritrovare. Il New order ancora non è tale. Monteverde ne posticipa la risoluzione. Le forze non mancano, i presupposti neppure. Il Disorder si sta riducendo e il puzzle è ancora rovente di vitalità. Sfrenata.
Edizione esaminata e brevi note
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Gianfranco Franchi (Trieste, 1978), detto Lankelot, ha pubblicato: Disorder (Il Foglio Letterario, 2006), Pagano (Il Foglio Letterario, 2007), L’inadempienza (Il Foglio Letterario, 2008), Monteverde (Castelvecchi, 2009), Radiohead. A Kid (Arcana, 2009), L’arte del piano B (Piano B, 2011).
Gianfranco Franchi, “Monteverde”, Castelvecchi, Roma, 2009.
Luca Martello, 29 aprile 2009
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