Storie di ingiustizie, dolore e riscatti
“Due file di bambini, una di fronte all’altra a salutare chi stava arrivando. Ci trovammo così a passare tra quelle ali spiegate nel segno dell’innocenza. La strada di terra battuta, cosparsa di petali rosa. Le bambine e i bambini cantavano un inno di gioia, tra le mani giunte, fiori di campo e a ogni ospite un inchino con la fronte e un sorriso. […]I bambini sorridevano e cantavano, in quel canto di vita lieve, immersi in quella loro purezza, da farti tornare la voglia di credere ogni tanto a un dio giusto e alla speranza.” (p.166)
È un canto che prende alla gola e che viene dal Tamil Nadu, una regione dell’India colpita dallo tsunami nel 2004. E un altro canto sembra provenire dalle anime dei duemila reporter uccisi nel mondo dal 1994 a oggi – “Tutti, tutti dormono sulla collina” – e sepolti in una loro Spoon River simbolica.
“Nel silenzio un canto” è una raccolta di reportages dall’Italia e da diversi paesi del mondo. Si tratta di testi che completano quanto era stato espresso dalle immagini. È come se l’Autore volesse dare altra forma e spessore alle sue inchieste e la parola scritta servisse a dilatare lo spazio per la riflessione e l’interiorizzazione di quanto visto e vissuto. La scrittura è memoria, emozione, denuncia, grido di dolore, riscatto, speranza.
Le esperienze narrate sono importanti e portano Casadio a contatto con realtà difficili, di grande povertà o di palese ingiustizia oppure all’incontro con figure di poeti (Dario Bellezza morente, Alda Merini prima che finisse nei giornali di gossip) o di uomini impegnati per limitare le sofferenze degli ultimi del mondo.
Ecco allora Gino Strada, il chirurgo che nel 1994 lascia il suo lavoro milanese e parte per il Ruanda dilaniato dalla guerra civile per operare lì, tra i più poveri.
Dall’impegno suo e della moglie Teresa nascerà Emergency, con i suoi ospedali di fortuna nei territori di guerra, spesso unico presidio sanitario in paesi devastati dalle mine e dai bombardamenti.
E ancora Giulio Albanese, il prete-reporter, che condurrà Casadio all’incontro con un uomo e un profeta: padre Alex Zanotelli, lo scomodo missionario comboniano che dapprima non vuole essere intervistato, perché non crede molto nella televisione italiana. Zanotelli ha vissuto per anni a Korogocho, una baraccopoli di Nairobi, in Kenia, dove le condizioni di vita sono terribili.
Dice padre Alex: “Forse qualcuno resterà sorpreso, ma io da tempo sto pensando al problema di Dio, io non so, non so più neanche chi sia Dio sinceramente, forse riesco sempre più a immaginarlo come una donna e, come una donna che genera, può partorire un figlio pieno di sofferenze senza essere in grado di porre alcun rimedio. Di fronte a quel dolore la madre nulla può, le è concesso soltanto di soffrire accanto al figlio. Forse Dio è proprio questo, non è onnipotente, forse anche lui è impotente come si è rivelato su quella croce e forse soffre con noi per spingerci a uscire dall’assurdità totale in cui viviamo”. (p.34)
E ancora:
“Il mondo potrebbe essere un piccolo paradiso per tutti quanti e non, come avviene oggi, per una minoranza di persone. Ce n’è abbastanza per tutti, ed è assurdo quello che sta avvenendo. E perciò mi appello a tutti: “O prendiamo seriamente questo grido dei poveri o i poveri disturberanno i nostri sogni, non ci lasceranno più dormire”. (p.36)
Nello scorrere dei reportages Casadio dà voce proprio agli ultimi, agli sfruttati, ai poveri, alle donne , ai bambini. Ampio spazio è dedicato alle morti bianche, le morti sul lavoro, così chiamate perché non lasciano traccia, sembrano spesso venir inghiottite nell’anonimato, diventano in breve un trafiletto sul giornale, ma tutti questi morti che costellano l’Italia da nord a sud avevano famiglie, figli, affetti, che custodiscono il loro ricordo e cercano giustizia.
La loro vita è stata sacrificata per il profitto altrui e Casadio cerca di dare loro spazio e voce, incontra i famigliari: mogli, genitori distrutti dal dolore e che paiono attendere un ritorno che non avverrà mai.
Dalla Sicilia dove operavano Falcone e Borsellino e dove è viva la loro memoria alla Sardegna delle miniere, dal profondo nord di Verbania sul lago Maggiore a Porto Marghera, dove il famigerato CVM (cloruro di vinile monomero) ha ucciso 149 operai, cui vanno ad aggiungersi tutte le altre morti collegate a diverse produzioni e tutti quelli che non risultano, perché hanno semplicemente vissuto a Marghera o nei dintorni. Migliaia di persone. In nome del profitto e dello sviluppo.
“A Mestre tutti sapevano” dice il poeta operaio Ferruccio Brugnaro, sapevano soprattutto i vertici della Montedison. E hanno taciuto, per anni. L’ennesima strage consumatasi silenziosamente.
Il lavoro nero, senza sicurezza e sfruttato è un fenomeno universale: dall’Italia Casadio passa all’Albania dilaniata dal Kanun, un sistema di faide famigliari che colpiscono fino al terzo grado in linea maschile. L’Albania è un paese di arretratezza selvaggia, uscito da una pesante dittatura comunista filo-cinese e ammaliato dal mito di un’Italia falso paese dei balocchi, vista in televisione.
Il “Viaggio di un reggiseno” finisce in Albania dopo esser partito dalla val Camonica, nel nostro profondo nord, lì dove gli imprenditori avevano impiantato centinaia di laboratori per cucire biancheria di lusso, in cui si dava lavoro a moltissime operaie, sfruttandole. Quando non è stato più redditizio lavorare in Italia, gli stabilimenti si sono trasferiti in fretta e furia in Albania, dove le “mani” costavano meno. “Compratori di mani” si definiscono gli imprenditori, perché quello interessa loro, le mani, non le teste, non le persone che muovono quelle mani. Le mani e il profitto, niente altro, né sicurezza, né garanzie, né diritti.
Alla fine dei turni di lavoro le operaie vengono perquisite nel timore che qualcuna rubi, indossandolo, uno di quei lussuosi capi di biancheria, che mai potrebbe permettersi col suo stipendio.
Dall’Albania il viaggio di un reggiseno si dirige di nuovo verso l’Italia, nei laboratori cinesi di Brescia, altri luoghi di sfruttamento.
Di ingiustizia in ingiustizia, Casadio arriva fino all’Oriente del dopo tsunami e lì, in India, scopre uno “tsunami quotidiano” nelle fabbriche di mattoni, dove uomini, donne e bambini lavorano, a vita, in stato di schiavitù. È uno dei reportages più allucinanti, dove alla devastazione causata dalla natura si aggiunge quella procurata dagli uomini. Nel Tamil Nadu: “Qui gli usurai, nei confronti della povera gente, avevano un metodo proprio. Prestando denaro non pretendevano la restituzione con l’aggravio di tassi di interesse altissimi. No, ripianavano i debiti accumulati dalle famiglie e in cambio incassavano la loro libertà.” (p.174)
L’usuraio è così libero di impiegare i suoi schiavi come preferisce. Il lavoro che compiono potrebbe esser facilmente sostituito con la meccanizzazione, ma gli esseri umani costano così poco che risultano più convenienti.
La schiavitù passa anche alle generazioni future e ciò avviene in uno stato democratico da oltre cinquant’anni come l’India, dove il sistema delle caste è ancora vivo e condanna 160 milioni di dalit, di intoccabili a una vita senza possibilità di riscatto.
I morti dalit per lo tsunami furono addirittura buttati in discarica a migliaia, così il governo evitò di pagare i contributi ai famigliari. Si assiste in questo modo a uno tsunami quotidiano, forse peggiore di quello naturale.
Scorre tra le pagine una presenza, come un filo rosso: sono le donne, le donne che cercano riscatto, si ritrovano, si associano, parlano, scrivono in Italia come in Albania e in India. Le donne, cui l’istruzione viene negata, studiano ugualmente, lottano per i diritti minimi e hanno una gran voglia di cambiare. Casadio ne incontra numerose e da loro viene la speranza, fatta di tante piccole conquiste graduali.
L’ultima parte del libro viene dedicata a coloro che sono morti per raccontare: i tanti giornalisti, reporter, uomini e donne, che hanno messo in gioco la loro vita nei territori di guerra o in inchieste pericolose, che andavano a smascherare forti interessi economici. Ilaria Alpi, Enzo Baldoni, Peppino Impastato, Carlo Siani, Carlo Casalegno sono solo alcuni dei duemila reporter uccisi dal 1994 ad oggi. Tanti, troppi.
Prima di raccontare di loro, Casadio ci ricorda che la libertà di stampa è stata una conquista nel nostro paese e che a volte se ne capisce l’importanza solo nel momento in cui la si perde – o la si vede ridotta.
La scena si sposta a Conselice, dove la campagna ravennate sconfina nella provincia di Bologna: qui Casadio incontra il vecchio Snap, un ex partigiano e altri suoi compagni. Ai tempi della Resistenza stampavano e diffondevano clandestinamente i primi giornali non controllati dalla censura fascista. La macchina stampatrice era detta la “pedalina”, perché funzionava con un pedale, sei pedalate per foglio. Loro stampavano 25mila fogli ed erano necessarie 150.000 pedalate.
Le donne poi s’incaricavano del trasporto, facevano le staffette con le bici, ingannando i controlli fascisti e tedeschi. Biciclette e pedalate erano “le armi di diffusione della cultura, in quei tempi di liberazione”.
Da lì, dal lavoro semplice e dal rischio di molti è scaturita la libertà di stampa e da allora molti giornalisti sono morti, spesso tolti di mezzo perché scomodi e desiderosi di raccontare quanto avevano visto. Anche loro attendono giustizia, ma come diceva il giudice Falcone, assassinato dalla mafia in Sicilia:
“Gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. (p.69)
articolo apparso su lankelot.eu nel luglio 2011
Edizione esaminata e brevi note
Nevio Casadio, giornalista e saggista italiano. Ha lavorato, in Rai, con Zavoli e Biagi. Ha vinto per tre volte il premio giornalistico “Ilaria Alpi”.
Nevio Casadio, “Nel silenzio un canto”, Marsilio, Venezia, 2010. Prefazione di Ettore Mo.
Approfondimento in rete: documentando.
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