Enzo Bianchi, il priore di Bose, sembra invitarci ancora una volta – dopo “Il pane di ieri” – attorno al camino per ascoltare i suoi racconti, magari sorseggiando un bicchiere di buon vino e parlando a bassa voce, con un linguaggio essenziale e semplice.
I leit-motivs – quelli che può riconoscere chiunque segua anche solo gli articoli del priore sui quotidiani– ci sono tutti: una vita bella, buona e beata, il fuge, tace, quiesce, “Fuggi, taci, rappacificati” del monaco Arsenio, i ricordi, la vita monastica, il pane, il vino, il Natale e la sua attesa, il rapporto con la vecchiaia e la morte, viste come eventi naturali, l’amicizia quale grande valore e vero sale della vita, l’assidua e approfondita lettura e meditazione della Bibbia.
“Ogni cosa alla sua stagione” – un detto popolare che mi ripeteva anche mia madre – è l’ideale prosecuzione de il precedente “Il pane di ieri”, ma stavolta il priore vince la sua naturale riservatezza e rivela maggiormente al vasto pubblico la sua dimensione personale, intima raccontandoci del suo rapporto col padre e delle donne che gli hanno fatto da madri, dopo esser rimasto orfano a otto anni.
Il libro si articola in quattro sezioni: i giorni degli aromi, i giorni del focolare, i giorni del presepe, i giorni della memoria più un prologo e un epilogo, che hanno come punto di riferimento la cella monastica e la Bibbia, definita come una “cella della grazia” cui Bianchi è fedele fin dall’età di tredici anni, quando ottenne dal parroco il permesso di leggerla integralmente.
Proprio dalla cella monastica, luogo privilegiato dell’habitare secum, in cui addestrarsi alla comunione con gli altri, prende avvio la narrazione. La cella non è dunque il luogo di un isolamento sterile, ma rifugio in cui pregare, scrivere, osservare il mondo, combattere le tentazioni.
La cella sa addolcire chi vi dimora e “la passione della parola, della comunicazione, e quindi della comunione richiede l’arte del silenzio e della solitudine”. (p.8)
Si snodano così i ricordi e le riflessioni del priore, parole buone, piene di saggezza e di armonia, insegnamenti che provengono da un’umanità calda, profonda, capace di cogliere la bellezza nelle persone semplici (il contadino che legge il vangelo, Teresina del Muchèt) e nei gesti quotidiani, cosicché nulla viene mai a essere banale o scontato.
Ritornano quelle tradizioni contadine – non idealizzate, ma narrate – che già avevamo visto ne “Il pane di ieri”, la gioia e la bellezza del vino, il succedersi dei raccolti e delle stagioni, ciascuna con i suoi aspetti positivi e i suoi frutti.
Alle stagioni naturali si accompagnano quelle della vita e il priore si sofferma particolarmente sulla vecchiaia. In un’epoca di giovanilismo esasperato e di cure estetiche eccessive, Bianchi non teme di definirsi anziano e riflette sulla morte, quale atto finale della vita, affinando l’arte del congedo.
“Quest’anno ho piantato un viale di tigli lungo la stradina che conduce al mio eremo: mi son chiesto se riuscirò a godere della loro ombra e soprattutto delle ventate di profumo dei loro fiori nel mese di maggio. Ma li ho piantati per rendere più bella la terra che lascerò, li ho piantati perché altri si sentano inebriati dal loro profumo, come lo sono stato io da quello degli alberi piantati da chi mi ha preceduto. La vita continua e sono gli uomini e le donne che si susseguono nelle generazioni, pur con tutti i loro errori, a dar senso alla terra, a dar senso alle nostre vite, a renderle degne di essere vissute fino in fondo”. (pp.117.18)
L’amore nella sua accezione più alta e più nobile è la chiave di tutto, è ciò che dà una ragione per vivere e anche per morire. Occorre “non aver paura di vivere l’amore anche quando presenta la faccia del sacrificio per l’altro…Sì, per amore ci si può sempre curvare, sapendo che comunque la vita ci curva e che ognuno se ne va portando con sé un segreto: come ha potuto trovare senso nella propria esistenza”. (p.99)
Ecco allora che il percorso cristiano – che è un percorso d’amore – è percorso di umanizzazione, capace di parlare comunque a tutti e di valorizzare le parti più belle e più profonde della persona.
Attento alla natura e soprattutto agli esseri umani, Bianchi concentra soprattutto nell’ultima sezione le rivelazioni più personali. Conosciamo così suo padre Pinèn (Giuseppe), rimasto vedovo troppo presto e poi risposatisi, ateo, socialista, eppure amico del parroco, cui fa gratuitamente i lavori da elettricista.
Tra lui e il figlio ci furono sempre poche parole e momenti di notevole incomprensione, specie quando Enzo, appena laureato e con una carriera politica davanti, scelse la vita monastica e si ritirò, dapprima da solo, nelle cascine di Bose, senza acqua corrente, elettricità e riscaldamento, a condurre una vita di preghiera e povertà. Da Pinèn il figlio ha imparato l’onestà e a far bene il proprio lavoro, qualunque esso sia.
Le figure più belle sono però Etta e Cocco, rispettivamente la maestra e la postina del paese, che si presero cura del piccolo Enzo dopo la morte della madre, lo accudirono, lo fecero studiare, lo educarono in quella fede che già la mamma aveva iniziato a trasmettergli.
“A mia madre devo la vita, a mio padre la libertà, ma a Cocco ed Etta devo ciò che sono come uomo e come cristiano”. (p.92)
Entrambe morirono a Bose – Cocco ultracentenaria – dove erano andate a vivere da anziane.
Amicizia e fraternità hanno poi caratterizzato la vita del priore.
“L’amicizia è una grande avventura in cui si conosce cosa significhi volere il bene dell’altro; è esercizio di accordo, di armonia, a volte una vera e propria scuola in cui si impara a smussare o a valorizzare alcuni aspetti del proprio carattere: in un certo senso si impara a diventare più autentici e più buoni”. (p.103)
Gratitudine per la vita, per gli incontri fatti, per i fratelli e le sorelle della sua comunità: questo emerge dalle pagine, che non idealizzano comunque la vita comune, né nascondono le esperienze negative con la sofferenza che comportano.
Non è escluso, in chi ha sognato come Bianchi un mondo di pace e giustizia, un senso d’impotenza e la tentazione del cinismo, cui bisogna reagire.
“Nonostante questo, mi sento ancora di rinnovare la mia fiducia negli altri, nell’essere umano, mi sento ancora di riaffermare la mia fedeltà alla terra, e di proseguire con rinnovata lucidità la battaglia ingaggiata da tanto tempo: se ho combattuto e continuo a combattere perché il mondo cambi, oggi più che mai mi ritrovo a combattere perché il mondo non cambi me. Davvero la bontà, la bellezza, la felicità richiedono una lunga pazienza e una fiducia nell’altro sempre da rinnovare, a costo di sperare contro ogni speranza”. (p.110)
articolo apparso su lankelot.eu nel gennaio 2011
Edizione esaminata e brevi note
Enzo Bianchi (Castelboglione, Monferrato 1943) è fondatore e priore della Comunità Monastica di Bose.
Enzo Bianchi, Ogni cosa alla sua stagione, Torino, Einaudi 2010.
Links:
http://www-1.monasterodibose.it/
http://www.monasterodibose.it/index.php/content/section/9/26/lang,it/
Follow Us