“Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange”.
Dante, Paradiso XI, 49-51
Tra saggio e romanzo, il volume del francescano Larraňaga vuole rivisitare soprattuttto la biografia interiore di san Francesco, cercando di capire e interpretare le sue stesse sensazioni, i desideri, i sentimenti, i contrasti.
Si percepisce chiaramente l’affetto reverenziale che l’Autore prova verso il santo, ma non si è qui in presenza di un’agiografia o di un libro di edificazione religiosa, dal momento che non vengono nascosti i momenti di buio e di desolazione – la terribile “notte di Dio” – vissuti da Francesco fin quasi alla fine della sua vita.
L’immagine del povero di Assisi risulta contestualizzata nella storia del suo tempo, concreta, non idealizzata, molto umana eppure non priva della sua dimensione trascendente e di uno straordinario e intenso rapporto con Dio e la sua grazia, un rapporto simile a quello dei profeti, inviati ad annunciare rinnovamento e spirito nuovo.
Né pazzo, né esaltato, né antesignano degli ecologisti, Francesco è una personalità sensibile trasformata dall’incontro con Dio attraverso una “transizione progressiva”, cioè non per improvvisazione o folgorazione repentina. Ogni suo cambiamento è frutto di preghiera, grazia e meditazione e richiede un certo tempo per attuarsi. Francesco agisce secondo il Vangelo, applicandolo alla lettera giorno per giorno senza piani precostituiti.
Larraňaga, basandosi sulle fonti – un vero peccato che manchi una bibliografia finale – colloca l’inizio del cambiamento di Francesco nella “notte di Spoleto”.
Nel 1198, a venticinque anni, Francesco parte per la guerra insieme ad altri giovani di Assisi per unirsi, nel Sud Italia, alle milizie papali che stanno sconfiggendo quelle imperiali. Arrivati a Spoleto pare che durante la notte Francesco abbia avuto “un’esperienza infusa di Dio”, cioè la presenza divina si manifestò improvvisamente in forma imprevista, invadente, sproporzionata e vivissima. Fu una rivoluzione.
Il mattino seguente Francesco ritorna a casa: ha preso coscienza che niente altro è importante se non il Signore, gli altri impegni, legami, attese possono venir messi da parte.
Nel giro di tre anni Francesco cambia gradualmente, lascia le feste e i divertimenti con gli amici, non gli interessa l’attività commerciale paterna, ricerca invece momenti di solitudine tra i boschi del Subasio per dialogare con Dio e adorare.
Man mano che questo rapporto matura cresce anche la straordinaria sensibilità di Francesco verso i poveri: Larraňaga sottolinea come, grazie alla chiamata del Signore, il santo riesca ad amare i più miserevoli, addirittura i lebbrosi, che gli avevano sempre suscitato ribrezzo. Non arriva a Dio attraverso l’uomo, si realizza invece il processo contrario, Dio lo conduce fuori da se stesso e lo spinge a conoscere e accudire personalmente gli stessi lebbrosi, che predilige con materna dedizione.
Francesco fa in pratica quello che Gesù realizza con l’incarnazione: spoglia se stesso e risponde alla chiamata in modo pieno e totale. Solo una forte motivazione può rendergli positivo ciò che comunemente è ributtante e miserabile.
Così il giovane brillante e ricco di Assisi s’allontana da quello che tutti immaginavano sarebbe stato il suo mondo: via dal godimento, via dalla gloria militare, s’avvia a diventare un “cavaliere di Cristo”, paladino di madonna Povertà. Nel suo agire infatti Francesco ha stile e classe, dà sempre contorni cavallereschi alle sue scelte e le riveste di luce e di gioia purissime, è libero, perché nulla possiede e dunque nulla può legarlo a sé, se non il Signore.
Nella prima fase della sua vita Francesco pensa solo a vivere la Parola giorno per giorno, non ha programmi, progetti o idee chiare sul futuro, non sospetta che Dio gli manderà molti fratelli e che dovrà mettere per iscritto la sua Regola.
Di fronte a compiti organizzativi si sentirà sempre impreparato, poco abile ad argomentare o a tenere discorsi complicati.
Dopo aver avuto da Dio l’incarico di restaurare la chiesa di san Damiano, convocato dal padre di fronte al vescovo, Francesco si spoglia dei suoi abiti, rinuncia ai beni, al nome e se ne va, nudo e libero, nel mondo.
La povertà, da lui abbracciata in modo totale, lo conduce alla pace e alla gratitudine verso Dio e il creato, verso ciò che riceverà in dono dagli altri per il suo sostentamento.
“Che cosa posso fare? Solo chi non possiede nulla può fare esperienza della liberalità di colui che alimenta gli uccelli e i fiori. Gli uccelli sono liberi perché non hanno granai. Solo chi riceve sa dare. Per amare bisogna essere poveri”. (p.82)
La vita di Francesco si svolge tra lavoro, preghiera e aiuto ai poveri, molte ore sono dedicate al colloquio con Dio.
Straordinario è l’umanesimo di Francesco: egli ama l’uomo come creatura, a prescindere dalle sue qualità. Di solito si ama una persona per le sue qualificazioni, ciascuno ha un suo polo d’attrazione (simpatia, ricchezza, bontà, fama) e viene perciò reso accattivante da tale polo. Se una creatura è priva di poli d’attrazione, chi la guarderà? Solo un cuore puro può farlo, un cuore purificato da Dio. Francesco sa guardare il “semplicemente uomo”, la creatura priva di ornamenti.
Egli pose venerazione dove non c’erano motivi di venerazione; pose stima dove non c’era motivo di stima. Amò in forma superlativa coloro che non offrivano ragioni per essere amati. Il suo affetto verso le persone aumentava in proporzione inversa ai poli di attrazione”. (p.96)
Sulla scia del suo esempio altri giovani lo seguono, l’amico Bernardo in primis. Lasciano beni e famiglie e condividono la sua estrema povertà. Lui li accoglie, li conosce uno per uno e li ama con dolcezza materna. Si può dire che Francesco riveli il volto materno di Dio, in questo forse c’è un retaggio del rapporto di tenerezza e affinità che ebbe sempre con la madre, madonna Pica, donna sensibile e raffinata, forse d’origine provenzale (e Francesco conosceva la lingua provenzale, probabilmente il parlar materno, nel quale intonava spesso canzoni).
Opposto all’uomo teorico, Francesco è un esploratore, l’uomo della concretezza e del senso letterale, l’uomo della sorpresa capace di stupirsi e d’improvvisare, di collocarsi fuori da qualsiasi schema: né monaco, né sacerdote, non cerca guide spirituali, semplicemente applica il Vangelo alla lettera e agisce di conseguenza.
Dio gli manda dei fratelli, destinati a diventare un seguito una moltitudine.
I primi due anni costituiscono l’epoca d’oro della storia francescana: dalla povertà assoluta Francesco fa scaturire il senso della fraternità e di qui la dimensione della gioia. Nulla è predeterminato in questi primi tempi e le difficoltà vengono risolte man mano che si presentano. La forza di Francesco sta tutta nell’esempio, nella limpida coerenza tra le sue parole e la sua vita.
Per risolvere il problema del loro sostentamento senza gravare sulle popolazioni chiedendo l’elemosina, Francesco lascia che i suoi fratelli lavorino come salariati, a giornata, e che ricevano il pagamento in alimenti o vestiti per sé e per gli altri. È una grande novità, che permette di raggiungere due scopi: il mantenimento quotidiano e la presenza profetica dei fratelli tra il popolo, specie tra i lavoratori.
Nei primi anni ifrati s’impegnano nelle atttività più diverse: portano acqua dalle sorgenti alle borgate, tagliano legna nei boschi, fanno i calzoali, ripuliscono mobili, tessono ceste, seppelliscono i morti specie durante le epidemie. Raccolgono, a seconda delle stagioni: grano, olive, frutta, uva.
In seguito si mescoleranno a marinai e pescatori o faranno i cuochi presso i signori feudali.
Francesco li lascia liberi rispetto alle ore e alle modalità di lavoro, purchè mantengano spazi per la preghiera.
La professione di ciascuno non viene abbandonata all’ingresso in fraternità, ma viene considerata il campo normale dove esercitare l’apostolato. Francesco valorizza i talenti di ciascuno e non pretende l’impossibile. “Nella formazione del fratello bisogna usare molto rispetto, molta pazienza e, soprattutto, un’invincibile speranza”. (p.129)
“Quasi tutti erano giovani, poveri e felici, forti e pazienti, austeri e dolci. Tra loro erano cortesi e affettuosi. Non imprecavano contro i nobili, né contro il clero, né contro alcuno. La loro bocca pronunciava sempre parole di pace, povertà e amore. Si mescolavano di preferenza tra i gruppi degli ammalati, poveri ed emarginati. La loro parola possedeva autorità morale perché il loro esempio precedeva la parola”. (p.129)
Periodicamente e secondo il dettato evangelico Francesco manda i fratelli in misisone, a coppie, nei paese e nelle città: affrontano rifiuti, disprezzo, prese in giro, ostilità, soffrono fame, freddo, prepotenze senza ottenere alcun successo aposdtolico. Francesco continua però a insegnare umiltà e povertà, considera il martirio la forma più alta di apostolato, forme nobilissime erano: il perdono delle offere, la gioia nelle tribolazioni, pregare per i persecutori, aver pazienza nei maltrattamenti, cambiare il male con il bene, non maledire chi maledice, non turbarsi per le calunnie.
All’inizio la predicazione vera e propria veniva in secondo piano, la forza del messaggio era costituita tutta dall’esempio e le parole erano poche e semplici.
Questo tipo di apostolato è più difficile di quello organizzato o ministeriale, perché non è possibile toccare con mano i risultati e si deve procedere alla luce della fede, è un ‘attività apostolica che richiede non tanto una preparazione intellettuale quanto piuttosto una permanente conversione del cuore.
Il percorso esistenziale di Francesco fu comunque tutt’altro che lineare: la sua fede fu grande, ma non gli furono risparmiate né le sofferenze fisiche nell’ultima parte della sua vita, né quelle spirituali.
Ebbe i suoi momenti d’insicurezza, la paura di non farcela a condurre i fratelli (non era colto, né abile a parlare), d’imporre loro un peso troppo grande da portare con il severo sposalizio con madonna Povertà.
La crisi nasce nel momento in cui Francesco pensa di appoggiarsi solo a sé stesso e alle sue forze e non a Dio. Lanciarsi nelle braccia di Dio implica un autentico “salto spirituale” non facile, né scontato neppure per una persona non comune come il povero d’Assisi.
Quando egli si affida totalmente all’Altro riacquista serenità e libertà e può essere di nuovo guida e luce per i suoi fratelli.La forza di Francesco sta nella debolezza: non ha nulla, è debole come Cristo sulla croce e proprio così diviene forte e dimostra che solo Dio è il salvatore, non l’uomo, né la ricchezza, né il potere.
Ricevuto a Roma dal papa, Francesco suscita non poche discusisoni e scompiglio, ma affascina tutti con la sua innocenza e spontaneità e per la forza con cui applica il Vangelo.
Francesco vive con semplicità e immediatezza disarmanti il messaggio di Gesù. Dalla povertà in cui vivono le prime comunità di fratelli si genera la fraternità, che apre i singoli l’uno verso l’altro. Se uno soffre, soffrono tutti, gioie e dolori, sentimenti ed esperienza vengono condivisi come il cibo quotidiano. In questo modo il senso di comunione cresce e si consolida. Francesco codifica questa scelta di vita solo negli ultimi anni, quando le fraternità sono diventate numerose e comprendono non solo italiani.
“Poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, con quanto più affetto uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale!” (p.183)
Sola sicurezza dei fratelli, privi di beni o proprietà, è il Signore, unico in grado di salvare.
Man mano che l’ordine s’allarga oltre ogni previsione del suo fondatore, si fa sentire la necessità di dargli una regola scritta, la stesura della quale fu tormentata. Francesco non era un legislatore ed ha contrasti con i suoi stessi vicari, vive anni difficili di silenzio di Dio e “notte dello spirito”. Quel che gli appare certo è che suo compito nella Chiesa sia quello d’imitare Cristo povero e umile, non Cristo maestro e dottore.
Lui e i suoi fratelli non sono chiamati a organizzare battaglie intellettuali o a difendere il prestigio della Chiesa.
Francesco non abiurerà mai al suo ideale di povertà e umiltà e si sentirà sempre un “cavaliere di Cristo”, animato da un ideale ai suoi occhi così limpido ed evidente da non aver neanche biosgno di essere dimostrato.
“Ha bisogno forse la luce di aggredire le tenebre per vincerle? È sufficiente che la luce scopra il suo volto e le tenebre si ritirano spaventate”. (p.244)
Una prima stesura della regola andò perduta (fu fatta sparire?) e Francesco dovette riscriverla con non poca fatica. Tra le norme innovative, oltre al precetto del lavoro manuale, c’è quella per cui se un ministro ordinasse qualcosa di contrario all’ideale, i fratelli non sono obbligati a obbedire. Inoltre, se i ministri andassero fuori dallo spirito della Regola, i frati devono correggerli e, se non si ravvedono, devono essere denunciati nel capitolo generale.
Per non provare rancore contro i suoi oppositori Francesco lavora su se stesso, prega molto e trova pace e consolazione, diviene libero da pensieri e opere non conformi a Cristo. Francesco è consapevole che è sbagliato trasformare l’avversario ideologico in nemico del cuore, perché così si chiudono le possibilità d’intesa e dialogo. Non ci può essere armonia con Dio, né con la terra mentre esistono dissonanze tra fratelli.
“La creazione è un immenso sacramento di Dio. […]
Il primo comandamento consiste nel credere nel bene. Che guadagno ci può essere nell’aggredire le tenebre? Basta solo accendere la luce e le tenebre fuggono spaventate. Se tu pretendi di distruggere una guerra con un’altra guerra, creerai un conflitto mondiale. Anche se non è così evidente, la pace è più forte del male, perché Dio è il sommo bene.” (p.340)
Larraňaga descrive Francesco trasfigurato e già proiettato verso l’aldilà nell’ultima parte della sua vita, seppure tormentato da grandi sofferenze fisiche, che comunque affronta con serenità riuscendo a sublimarle.
Nasce in questa fase finale il Cantico di Frate Sole o Laudes creaturarum, straordinaria preghiera e documento letterario:
Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi Siignore, per sora Luna e le stelle:
il celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi Signore, per sor’Acqua.
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.
Laudato si’, mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
et sostengono infermitate et tribulatione.
Beati quelli ke ‘l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.
Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
Il 3 ottobre 1226, a quarantacinque anni, Francesco si spegne attorniato dall’affetto dei suoi frati e delle popolazioni circostanti. Ha portato nella Chiesa uno spirito assolutamente nuovo, ha realizzato un rapporto privilegiato con la creazione, immagine di Dio, e con Cristo, ha vissuto in modo totalizzante e assoluto la sua vocazione. È stato un uomo autentico.
AFFINITÁ ELETTIVE
«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più su» mi disse «ala cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogni voto accetta
che caritate a suo piacer conforma».
Dante, Paradiso III, 97-102
Profondamente affine a san Francesco è la luminosa figura di santa Chiara d’Assisi. Di famiglia aristocratica, giovanissima fuggì nottetempo da casa per consacrarsi al Signore e seguire l’esempio di Francesco.
Fu donna di grande costanza e fortezza, che rappresentò sempre per il povero d’Assisi sostegno, aiuto e consiglio. Il loro rapporto fu di grande affinità e nobiltà.
L’idea originaria di Chiara era di seguire la scelta di Francesco e dei suoi fratelli: povertà, servizio ai lebbrosi, forse anche vita itinerante, ma i tempi non erano ancora maturi per questo e non si concepiva una vita religiosa femminile diversa da quella monacale.
Chiara così si dedicò alla vita contemplativa, una dimnesione che fu sempre carissima a Francesco, che egli praticò spesso, ma forse non quanto avrebbe desiderato.
“Si ha l’impressione che Francesco fosse un eterno insoddisfatto nella sua insaziabile sete di Dio, e che una parte importante della sua anima sia rimasta incompleta, quasi frustrata. Se fosse dipeso da lui sarebbe stato un felice e perpetuo anacoreta in una qualsiasi roccia dell’Appennino. Fu il vangelo a tirarlo fuori dalla solitudine”. (p.212)
La vita contemplativa apparentemente non serve a nulla, è semplicemente adorazione e dimostra che Dio è così grande chemerita donargli l’esistenza intera. Larraňaga la paragona all’olocausto, nel quale l’animale immolato veniva interamente bruciato come offerta al Signore. Nel sacrificio invece le carni servivano ai leviti e ai servitori del tempio.
L’originalità delle clarisse è rappresentata dalla povertà. Le novizie dovevano rinunciare a tutti i loro beni, mentre in quel tempo le nobildonne che si consacravano portavano al convento una ricca dote.
Chiara attuò una sorta di rivoluzione: le monache dovevano vivere del loro lavoro e, se questo non bastava al loro sostentamento, potevano chiedere la carità.
Nella regola, scritta un anno prima della morte, Chiara attua la fraternità ed elimina la verticalità dell’autorità, affidando alla comunità l’uso del potere.
Come Francesco, Chiara abbraccia in pieno il “privilegio dell’altissima povertà”: le comunità da lei fondate vivono senza rendite o beni sicuri, fatto inconcepibile all’epoca. Papi e cardinali cercarono più volte di convincere Chhiara a rinunciare a questosuo ideale, che loro ritenevano irrealizzabile, alla fine, solo nel monastero di Monticelli – unico su ventiquattro – rimase in vigore il “privilegio”.
Tutto questo nei ventisette anni che Chiara sopravvisse a Francesco.
Ciò nonostante la santa rimase fedele all’ideale e, prima di morire, riuscì a convincere il papa a rinnovare il “privilegio” per le generazioni future.
articolo appaso su lankelot eu. nell’agosto 2009
Edizione esaminata e brevi note
Ignacio Larraňaga, nato in Spagna, ha trascorso quasi tutta la sua vita di sacerdote francescano in America Latina. Si è impegnato in anni recenti in una nuova forma di apostolato, volta al risveglio spirituale delle comunità religiose e dei gruppi ecclesiali.
Ignacio Larraňaga, Nostro fratello di Assisi. Storia di una esperienza di Dio, Padova, edizioni Messaggero 2003.
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