“Da quando mia madre è morta ho ripreso ad amare le domeniche…” (p.3)
Non è facile inoltrarsi nelle dinamiche famigliari mantenendo lucidità e senza scendere nel sentimentalismo. Carla Cerati riesce a farlo in un romanzo che indaga il rapporto figlia-madre anziana sempre meno autosufficiente. Il riallacciarsi, costretto dalla necessità, di una relazione che s’era fatta, dopo l’infanzia e l’adolescenza, sempre più distratta e lontana, spinge la narratrice Giulia a ripercorrere la biografia materna e a cercare i motivi di certi comportamenti e reazioni.
Il libro è tripartito: nella prima parte Giulia racconta l’ultima fase del rapporto con sua madre, quando emergono i problemi dell’anziana che spingono la figlia ad accoglierla in casa propria, una casa semivuota giacché i figli ormai cresciuti se ne sono andati e il matrimoio è naufragato.
La seconda parte – una sorta di cuore del libro – è costituita dalla ricostruzione della biografia materna attraverso i racconti che, su invito di Giulia, lei stessa fa alla figlia.
La terza parte riprende la prima e narra il progressivo decadimento e l’ineludibile epilogo.
Giulia sembra scrivere per riordinare a posteriori un rapporto conflittuale e d’incomprensione e per esorcizzare sensi di colpa irrisolti, è lucida fino a rasentare la freddezza, concreta e assai realista nel descrivere i problemi che chiunque si trovi a convivere con un anziano deve prima o poi affrontare.
Spinta dal senso del dovere, dalla preoccupazione di sapere la madre da sola a Modena, dalla compassione, Giulia finisce per ospitarela in casa sua a Milano.
Pur non essendo l’unica figlia, sa che tutte le aspettative ricadono su di lei, la sorella Lea abita più lontano e ha figli ancora giovani; il fratello Michele, morto da anni, ha lasciato una vedova che, pur vivendo nella palazzina dell’anziana, è occupata a tempo pieno con i nipotini.
La vita di Giulia viene gradualmente modificata in funzione delle abitudini della madre, che presenta, oltre ai difetti tipici dell’età (insicurezza, noia con conseguente tendenza a osservare tutto quello che fanno gli altri) un carattere non facile, poco affettuoso e ipercritico e una globale incapacità di comprendere le esigenze altrui, essendo concentrata troppo su sè stessa.
Giulia che, alla soglia dei cinquanta, sta da poco riassaporando una recuperata libertà e nuovi orizzonti lavorativi, si sente soffocare. La presenza materna – curiosa, a volte invadente, incapace di manifestare riconoscenza per i sacrifici che la figlia fa per lei – diventa sempre più ingombrante, asfissiante, quasi una paranoia.
La vita dell’una rischia di diventare la morte dell’altra, Giulia non solo scivola verso la depressione, ma somatizza il malessere interiore.
Termini come nervosismo, rabbia, obbligo, invadenza, con i quali si riferisce a sua madre, costituiscono altrettante spie linguistiche del fastidio, del disagio e dell’incompatibilità.
“…non potevo più accettare un essere completamente dipendente dalle mie attenzioni. Era questo che non tolleravo di mia madre, che mi soffocava: che mi stesse a guardare in silenzio come un cane, apparentemente senza pretendere nulla ma in realtà aspettandosi da me tutto”. (p.117)
Si tratta di uno stillicidio fatto di piccoli gesti quotidiani, di un’erosione lenta e progressiva, di un’inchiodarsi della vita su quel punto.
L’insofferenza di Giulia è causata dalla perdita della propria libertà e delle varie modifiche (e talvolta rinunce) dovute alle necessità materne.
Se l’anziana sembra non rendersi conto di tutto questo, Giulia da parte sua è fin troppo innamorata della propria riconquistata libertà, che, è bene ricordarlo, subisce modifiche e limitazioni in qualsiasi rapporto famigliare, per quanto positivo o gratificante.
Giulia si ritrova ad incarnare un modello femminile che non le appartiene.
“Il mio tempo si frantumava in occupazioni atte solo alla sopravvivenza e di cui non sarebbe rimasto nulla. E la mia vita? Il mio lavoro? Le mie ambizioni?”(p.223)
L’anziana vive frastornata “colpevole di nulla davanti a se stessa e invece colpevole davanti a me di non lasciarmi vivere a modo mio” (p.83)
Per cercare un dialogo con la madre e superare la noia Giulia decide di farla parlare del suo passato e così, nella seconda parte sulla scia della memoria, emerge un suo ritratto nuovo, di donna non convenzionale, capace di scelte controcorrente e che ha saputo prendersi cura – spesso da sola essendo il marito lontano per lavoro – di tre figli in anni in cui la maternità non era tutelata e le donne non avevano diritti sul lavoro.
Proprio grazie a questi racconti Giulia riuscirà a capire meglio sé stessa , i propri sentimenti e quelli materni di fronte alla sua nascita (imprevista e indesiderata). Sarà una rivisitazione delle proprie radici priva di mitizzazioni, realistica e chiarificatrice. A sua madre pensa con un misto di rabbia e ammirazione, vede i suoi errori, ma anche le fatiche e le qualità.
La parte centrale è la più bella del libro sia per la ricostruzione dei rapporti famigliari che per le riflessioni che può suscitare sulla condizione della donna.
L’ultima sezione ci riporta nel presente e al progressivo decadimento della madre. In anni in cui le badanti ancora non ci sono, l’unica alternativa alla forzata convivenza è costituita dai pensionati per signore e dalle case di riposo.
Giulia e Lea si ritrovano alle prese con i problemi di queste strutture, con burocrazia, attese, periodi di assistenza ospedaliera con relativi rituali e nuova convivenza.
Pur adattandosi, Giulia si rivela insofferente e vive con orrore e disagio la decadenza fisica della madre. Ammira il personale infermieristico capace di mansioni che lei non si sente disponibile a svolgere, nella naturalezza con cui altri compiono certe forme di assistenza percepisce qualcosa di ancestrale che lei ha perduto o forse non ha mai posseduto.
Si sente inadatta, presa tra sensi di colpa, doverizzazione e aspirazione alla libertà.
“Queste cose si fanno anche per un bambino, però un bambino cresce, un vecchio devi aspettare che muoia”. (p.226)
La realtà della casa di riposo è soltanto abbozzata con qualche istantanea sulla sala comune popolata di vecchi paralizzati o dementi. La madre di Giulia ha la fortuna di andarsene lucida e in tempi non troppo lunghi, mentre, vedendola sempre più fragile e incerta, Giulia inizia a non ricordare più i motivi del fastidio e dell’esasperazione e a vivere le visite della domenica pomeriggio come una consuetudine addirittura piacevole.
Nel finale la lucidità rasenta la freddezza, Giulia constata il naturale concludersi di un lungo percorso esistenziale, eppure non può, quasi suo malgrado, non ammettere l’importanza che la figura materna ha avuto nella sua vita.
Articolo apparso su lankelot.eu nel settembre 2008
Edizione esaminata e brevi note
Carla Cerati, (Bergamo 1927) scrittrice e fotografa italiana.
Carla Cerati, La cattiva figlia, Milano, Frassinelli 2002.
Links:http://it.wikipedia.org/wiki/Carla_Cerati
http://www.stigmamente.it/dossier/arte/Fotografia/ilavoridiCarlaCerati/tabid/88/Default.aspx
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