Ricapito Francesco

Concerto Bruce Springsteen And The E-Street Band – Milano, San Siro – 5 Luglio 2016

Pubblicato il: 10 Luglio 2016

Sono le 20 e 23 quando le note del tema di “C’era una volta in America” di Ennio Morricone risuonano nello stadio: è il segnale, il concerto sta per iniziare. Siamo a Milano, nello stadio San Siro, il palco è posizionato sul lato lungo del campo e noi ci troviamo sulla tribuna di fronte, nel terzo anello, quello più alto. Insieme a noi altre 60.000 persone che nell’ultima ora hanno più volte espresso la loro impazienza con applausi spontanei e cori dedicati a lui, Bruce Springsteen.

Uno alla volta entrano i membri della E-Street Band, tra questi Garry Tallent, bassista e membro fondatore, “professor” Roy Bittan al pianoforte, Jake Clemons, sassofonista e nipote del compianto Clarence “Big Man” Clemons, il batterista Max Weinberg, vero e proprio metronomo umano, Nils Logfren, il chitarrista con il suo inconfondibile cappello a cilindro e l’altro chitarrista, Steven Van Zandt, come sempre vestito completamente di nero, compresa la bandana. Springsteen entra per ultimo, un “Ciao Milano” per scaldare ulteriormente gli animi e poi si parte: Meet Me in the City, è la prima volta che viene eseguita durante il tour europeo e già da questo si capisce che stasera il repertorio sarà diverso da quello suonato due giorni fa sempre qui a San Siro.

Colpisce subito l’essenzialità, non ci sono effetti speciali come fumogeni, piattaforme rialzate o coreografie particolari. Oltre alle normali luci colorate tipiche di ogni concerto ci sono solo tre maxi-schermi, uno dietro la band e gli altri due ai lati del palco. Il messaggio è chiaro: i protagonisti della serata sono solo la musica e coloro che la suonano.

Non fa nemmeno in tempo a spegnersi l’ultimo accordo della canzone che si parte con quella successiva, “And 1, 2, 3, 4” e via di nuovo. Il tour celebra l’uscita di un’edizione speciale dell’album The River del 1980, di conseguenza i concerti vedono una cospicua presenza delle canzoni di quell’album,  come The Ties that Bind, che fa ballare tutti con la sua velocità.

I miei vicini si ostinano a stare seduti e io pur non approvando devo imitarli per evitare di bloccare la visuale di chi mi sta dietro. Le canzoni continuano a ritmo serrato, poche parole e molta musica. Il sassofono di Jake Clemons intona l’intro di Sherry Darling e Springsteen scende per la prima volta dal palco avvicinandosi al pubblico nel prato. I suoi concerti sono stati spesso definiti dei veri e propri riti collettivi ed infatti al loro interno ci sono dei momenti cardine che tutti aspettano: uno di questi è la possibilità per gli spettatori di scegliere le canzoni. Vediamo quindi alzarsi innumerevoli cartelli e cartelloni con i titoli dei brani richiesti, Springsteen ne afferra uno, lo mostra alla band e alla telecamera e dopo pochi secondi il sogno di quello spettatore diventa realtà: Spirits in the Night, una canzone che parla di follie e feste notturne, di strada percorsa e da percorrere. La coda è più lenta, con solo il piano e la voce. Quando anche il piano s’interrompe, il Boss lancia più volte un richiamo al suo pubblico ”Can you feel the spirit of the night?”, “Lo sentite lo spirito della notte?” La risposta del pubblico è un boato di approvazione. Seguono altre tre canzoni su richiesta eseguite senza sbavature, una grande dimostrazione di abilità se si pensa che il repertorio di Springsteen comprende più di duecento canzoni.

La scaletta riprende da Hungry Heart, tratta sempre dall’album The River: Bruce torna tra il pubblico e comincia a percorrere la passerella in mezzo al prato, lo segue Jack Clemons, quasi a voler controllare che non si perda. Out in the Street continua la lista di canzoni tratte da The River, a questa segue Death to my Hometown da Wrecking Ball del 2012; il suo ritmo cadenzato, quasi militare, funge da cesura ed introduce verso una nuova fase dello spettacolo.

Le luci si abbassano e diventano di un blu soffuso, i fan più esperti sanno già cosa sta per succedere e poco dopo uno degli assoli di armonica più famosi della storia della musica conferma i loro sospetti: The River, canzone lenta e tragica che racconta in modo crudo e spietato l’altra faccia del sogno americano, la storia di quelli che il sogno non sono riusciti a realizzarlo nonostante la fatica e il lavoro. Springsteen canta appoggiandosi all’asta del microfono e non si muove, il pubblico alza al cielo i cellulari illuminati, una volta lo si sarebbe fatto con gli accendini ma l’effetto è lo stesso molto suggestivo. Un momento d’intimità, tra il Boss e altre 60.000 persone. Un momento che continua poi con Racing in the Street: una ballata su due giovani che per campare partecipano alle corse d’auto, non per soldi ma semplicemente perché non sanno cos’altro potrebbero fare. Ne esiste un’altra versione, pubblicata nel 2010 nell’album The Promise, ma questa è quella originale e la parte finale è un lungo assolo di piano che lo stadio ascolta in religioso silenzio.

Finisce la parentesi lenta, le luci si riaccendono e si ricomincia a saltare con Cadillac Ranch, The Promised Land e I’m a Rocker. Difficile immaginare un’atmosfera più carica di entusiasmo, poi però arriva Because the Night e bisogna ricredersi: anche chi è qui per caso, perché magari trascinato dal partner o dagli amici ne conosce il ritornello e tutti lo cantano a squarciagola. Poi ci pensa Nils Logfren a zittire tutti con il suo assolo di chitarra, suonato mentre gira su sé stesso come una trottola. Il crescendo continua con Streets of Fire, suonata per la prima volta nel tour europeo e stavolta è il Boss a scatenarsi con la chitarra. La concentrazione, lo sforzo e la determinazione ce li ha stampati in faccia: muscoli tesi, mascella serrata, sembra quasi che possa esplodere da un momento all’altro.

Subito dopo arriva The Rising, un pezzo più tranquillo ma con il sapore della calma prima della tempesta: è tratto da un album omonimo pubblicato nel 2003, considerato dai critici l’ultimo capolavoro di Springsteen, una sorta di psicanalisi collettiva del popolo americano dopo gli attacchi dell’11 settembre. La tempesta arriva puntuale subito dopo con Badlands, “Bassifondi”, una delle canzoni più potenti del repertorio: una sorta di ribellione personale contro un destino avverso ed una condizione senza apparenti vie di fuga. Little Steven si avvicina al microfono di Springsteen, lui gli fa posto e i due cantano insieme, quasi baciandosi da quanto sono vicini, in quella che è una delle immagini più famose della musica rock. Un lunghissimo crescendo di batteria viene portato ulteriormente avanti dal coro di tutto lo stadio e alla fine sembra quasi che la band termini la canzone solo per risparmiare le energie del pubblico per le prossime canzoni. Un tizio dietro di me è chiaramente un fan accanito: ha cantato a squarciagola tutte le canzoni, pure quelle meno conosciute e spesso ha addirittura anticipato le piccole variazioni che caratterizzano le performance dal vivo. Probabilmente è venuto anche al concerto di pochi giorni fa.

La pausa che dovrebbe segnare l’intervallo tra lo spettacolo ed il bis dura meno di un minuto, il Boss si bagna la testa con una spugna e poi ricomincia, non c’è nemmeno bisogno di uscire e rientrare, tanto sanno tutti che non è finita qui. Tutte le luci dello stadio si accendono e la band attacca Backstreets, a metà canzone Springsteen zittisce tutti solo per poi ripartire più forte di prima. Segue una delle poche canzoni “obbligatorie”: Born to Run. Anche in questo caso si parla di notti folli a bordo di “suicide machines” e di corse verso posti lontani dove si spera che la propria vita possa essere migliore. Le canzoni di Springsteen parlano della società americana, dei suoi problemi e delle sue contraddizioni, ma riguardano sentimenti e sensazioni che colpiscono tutti. Ad un ascolto superficiale possono sembrare retoriche e banali, ma lo sono perché la vita di tutti i giorni è banale e questo è quello che raccontano.

Seven Nights to Rock, una cover, viene suonata quasi per sfidare il pubblico, una gara di resistenza a colpi di rock e forse è anche un riferimento al fatto che questo è il settimo concerto di Springsteen  qui a San Siro. Segue Dancing in the Dark, un altro dei momenti cardine della liturgia di Springsteen: finita l’ultima strofa scende di nuovo tra il pubblico e fa salire sul palco una ragazza che chiede di poter suonare la batteria con Max Weinberg. Le vengono consegnate due bacchette e comincia così a suonare insieme al batterista, il quale forse per la prima volta da quando è iniziato il concerto distoglie lo sguardo da Springsteen. Poi ne sale un’altra che si definisce sorella di capelli di Jake Clemons e che lo raggiunge, in effetti le loro capigliature si assomigliano molto. Infine ne arriva una terza, dal suo cartello si legge che è venuta al concerto per celebrare il suo addio al nubilato e con buona pace del futuro marito si lancia in un appassionato ballo col Boss, legandogli pure un fiocco bianco al polso. Poco dopo Springsteen tira su pure un ragazzino a cui viene consegnata una chitarra con la quale partecipa al crescendo finale della canzone.

La E-Street Band non molla la presa sul pubblico e parte con Tenth Avenue Freeze-Out: una sorta di storia su come si sia formata la band stessa, la terza strofa è la più commovente e narra dell’arrivo di Clarence “Big Man” Clemons, storica spalla del Boss durante i concerti e purtroppo mancato nel 2011. L’omaggio è dovuto e così ecco che gli schermi mostrano alcune immagini del sassofonista insieme anche a Danny Federici, organista e membro fondatore della band morto nel 2008. Il pubblico applaude commosso.

La canzone successiva è Shout, un’altra cover, di solito serve a sfiancare definitivamente il pubblico. Springsteen inscena un malore improvviso, due finti medici lo portano via in barella con ancora la chitarra in mano ma si fermano a metà strada per farlo scendere. Lui ritorna al suo posto dietro al microfono e attacca l’ennesima ripetizione del ritornello. Sembra la conclusione ma arriva un ultimo regalo: Bobby Jean, pezzo tratto dall’album Born in the USA che parla di due amici che si separano. Si pensa che sia stata scritta quando Steven Van Zandt decise di lasciare la band per un periodo, ma oggi sembra quasi un commiato tra il boss e il suo pubblico.

Gli applausi non finiscono più e non si capisce chi sia più sudato, se loro il pubblico. Mentre la band lascia il palco, Springsteen li ringrazia uno per uno ma ancora non se ne va, afferra la chitarra acustica e l’armonica e viene a darci la buonanotte: This Hard Land riporta il battito cardiaco dello stadio ad un livello normale, “stay hard, stay hungry, stay alive if you can and meet me in the dream of this hard land”, “tieni duro, resta vivo, sii affamato se puoi e incontrami in un sogno in questa dura terra”. Sono le parole che chiudono la canzone e l’ultimo messaggio che Springsteen lascia al suo pubblico stasera. Il Boss alza la chitarra al cielo, ringrazia più volte Milano, “Vi amo San Siro” ed esce di scena. L’orologio dice che è mezzanotte, significano tre ore e quaranta minuti di concerto con ben 33 canzoni. Se si sommano a quelle del concerto di due giorni fa si arriva ad un totale di 69 canzoni e sette ore e venti di concerto. Tutto questo a quasi 67 anni.

La sua musica può piacere o meno e ovviamente dipende dai gusti personali di ciascuno, molti lo hanno pure criticato per essere politicizzato e per comportarsi come una specie di messia o di predicatore. Su di lui sono stati scritti interi libri e saggi e non vale la pena dilungarsi qui sulla figura di quest’artista, vale però la pena considerare i fatti: assistere ad un suo concerto offre più di tre ore di ottima musica ed intrattenimento. Il suo personale talento sul palcoscenico si combina perfettamente con la grande abilità dei musicisti della E-Street Band, con cui si vede anche ad occhio nudo che esiste un grande feeling rodato da decenni di carriera.

Springsteen è senza dubbio uno dei migliori intrattenitori dei nostri tempi, gli bastano una chitarra ed un’armonica per ammaliare un pubblico di migliaia di persone. La semplicità e la naturalezza con cui suona, quasi come se si trovasse nel salotto di casa sua, lo pongono al di fuori della categoria delle “rockstar bollite”. Non finge di essere più giovane e si presenta per quello che è, un rocker di quasi settant’anni consapevole di aver già passato il suo periodo d’oro ma che ciònonostante continua a fare il suo mestiere con passione, impegno e rispetto verso il pubblico.

Links:

http://www.internazionale.it/opinione/giovanni-ansaldo/2016/06/26/bruce-springsteen-concerto-milano-roma

http://www.rockol.it/news-660344/bruce-springsteen-milano-2016-scaletta-5-luglio-recensione?refresh_ce

Francesco Ricapito     Luglio 2016