Neppure gli amanti del calcio autentico, quello che ha fatto storia e che non si scolla da trionfi e nomi memorabili, possono esimersi dalla colpa di aver dimenticato Arpad Weisz. Il suo nome, che pure ha fatto brillare per alcuni campionati l’Inter e il Bologna, sembra essere stato rimosso senza troppi sforzi. Chi è Arpad Weisz? Ce lo racconta, in maniera appassionata e con dovizia di dettagli, il giornalista Matteo Marani. Mi sono avvicinata a questo libro, nascosto sotto una pila di altri, perché ho notato che il titolo conteneva la parola Auschwitz e, come sempre, i miei occhi si incollano a tutto quello che sfiora la Shoah. Trovare un’opera che mescoli calcio ed Olocausto, in realtà, è un po’ strano. Per questo ho comprato il libro e l’ho letto d’un fiato.
Confesso che del calcio mi interesso poco. Quel poco che basta a seguire una squadra per affetto e quel poco che di riflesso arriva da un compagno il cui DNA è inguaribilmente giallorosso. Tutto qui. Per questo, forse, ho seguito, curiosa come un topo, gli excursus puramente calcistici di Marani. Non ho afferrato tutto, me ne rendo conto. Ho però riconosciuto l’eco di nomi che risuonano tuttora e che fanno di questo libro anche un breve saggio di storia calcistica. A me interessava soprattutto conoscere la vicenda di Weisz e di Auschwitz, una vicenda che, purtroppo, somiglia a quella di tantissimi altri ebrei italiani ed europei che hanno pagato con la vita la stupida ferocia del nazismo.
Arpad Weisz è un ebreo ungherese. Ha giocato, come ala sinistra, in diverse squadre del suo Paese fino ad approdare in nazionale nelle Olimpiadi del 1924. Come calciatore ha giocato anche in Cecoslovacchia, Uruguay e in Italia: primo straniero per la Juventus di Agnelli. Terminata la carriera giocata, Weisz diviene allenatore. Ed approda in Italia: nell’Inter, allora denominata Ambrosiana. Siamo nella stagione 1929/1930, prima a girone unico. Weisz, a soli 34 anni, riesce a vincere lo scudetto. E’ in questa fase che l’ungherese scopre un giovanissimo e scapestrato Giuseppe Meazza, allora 17enne. Lo allena individualmente e in lui riconosce il talento che verrà. “Milano è stata per dieci anni la nuova patria di Weisz, un’appendice italiana di Budapest. Esclusa l’esperienza sudamericana e quella con il Bari due anni dopo lo scudetto, è rimasto ininterrottamente sotto la Madonnina dal 1926 al 1934, lasciando l’Inter con due secondi posti consecutivi nell’ultimo biennio, alle spalle della grande Juventus degli Agnelli, e una finale di Coppa Europa del 1933“.
La parentesi milanese, però, si chiude quando all’Inter arriva il presidente Ferdinando Pozzani, denominato “Generale Po”. Un uomo risoluto e pragmatico che, però, ama mettere il naso negli affari tecnici e si prende la briga di voler scegliere persino la formazione. Arpad non tollera la scelta di Pozzani di affiancargli un allenatore italiano nella stagione 1933/34 e lascerà definitivamente l’Inter per approdare al Bologna. Siamo nel 1935 e Mussolini è impegnato nei suoi progetti di espansione coloniale in Africa. A Bologna Weisz trova un presidente come Renato Dall’Ara, un imprenditore scaltro che sa coniugare perfettamente i suoi interessi con le sue passioni. Con Arpad Weisz il Bologna vince due scudetti consecutivi e, nel 1937, anche il Torneo dell’Esposizione Universale, antenato delle moderne coppe europee. Negli stessi momenti in cui il calcio di Weisz e dei suoi giocatori conosce il trionfo, l’Italia sta per vivere uno dei suoi momenti più controversi. “Bologna è parte dell’Italia in questo difficile 1938, e l’Italia ha indossato senza riserve l’abito razzista. Se ne renderanno conto in fretta, i quasi mille ebrei della città. Giornali e propaganda hanno dato sfogo all’intestino, alla demagogia, alla demenzialità più assurda […] Il risultato è che Weisz non può essere protetto dai tifosi, non può essere difeso dai suoi superiori, non può essere assistito neanche dai vicini di casa, gli ultimi a rimanergli accanto. Niente da fare. E’ un personaggio conosciuto, svolge un lavoro popolare e purtroppo per lui compare da settimane nella lista degli ebrei stranieri da cacciare“.
Arpad, sua moglie Elena (Ilona) e i loro due figli, Roberto e Clara, devono andare via. I divieti per gli ebrei si fanno sempre più stringenti. Non c’è spazio per il noto allenatore e i suoi figli non possono più andare a scuola. Weisz rassegna le dimissioni. Segue la sua ultima partita e la vince: Bologna 2, Lazio 0. Poi di lui sembra che nessuno voglia più parlare. “La stampa sembra averlo cancellato. Una croce sopra. Un alinea netta, come fanno i burocrati sulle liste dell’infamia“. La famiglia Weisz, la cui casa si trovava in via Valeriani numero 39, a Bologna, si perde alla fine del 1938. Il talentuoso allenatore si trasforma in un uomo in fuga. Deve salvare la sua famiglia, prima di tutto. Si rifugia a Parigi e, dopo un breve periodo di permanenza in Francia, passa a Dordrecht, in Olanda, dove allena, con i soliti successi, la piccola squadra locale del DFC. Nel 1940, però, anche l’Olanda si arrende all’avanzata tedesca e la persecuzione ai danni degli ebrei diviene soffocante anche a Dordrecht. Nel 1941, a settembre, i dirigenti del DFC ricevono una comunicazione dal Commissariato di Polizia nella quale si proibisce all’ebreo Arpad Weisz “di trovarsi su un terreno dove sono organizzate partite accessibili per il pubblico“. E’ la morte sociale, professionale ed umana per l’allenatore. La mattina del 2 agosto 1942 la famiglia Weisz viene svegliata da alcuni uomini della Gestapo. I Weisz sono costretti a prendere poche cose e a seguirli, destinazione il campo di Westerbork, passaggio intermedio prima di Auschwitz. Perché è proprio in un forno crematorio di Auschwitz che verranno presto condotti i corpi di Elena, Roberto e Clara. Per Arpad, un uomo ancora forte ed abile, ci sarà, presumibilmente, un destino leggermente diverso. Marani ricostruisce la sua fine con un po’ di intuito e deducendo altri dati. L’allenatore, infatti, potrebbe essere stato indirizzato a Cosel (Alta Slesia) perché, dalle rigorose registrazioni naziste, non risulta essere tra i presenti ad Auschwitz né essere stato gasato con moglie e figli. Arpad è un detenuto costretto ai lavori forzati, privato di ogni dignità. Un ebreo come tanti. Resiste per diverso tempo grazie ad una tempra atletica che lo mantiene vivo ma, la mattina del 31 gennaio del 1944, non risponde all’appello. “Non si è fatto trovare sull’attenti nella fila per cinque, che divide da un anno e mezzo con gli altri reclusi. Finalmente il triplice fischio finale“.
“Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo” ha il merito di restituire onore e dignità ad un uomo che, in maniera molto frettolosa e piuttosto colpevole, è stato scelto di lasciar cadere nell’oblio. Arpad Weisz ha consegnato al calcio italiano alcuni dei suoi momenti migliori, è stato uno sperimentatore intelligente, un acuto scopritore di talenti, un uomo colto, pacato, schivo estremamente capace. Un maestro, come sarebbe giusto definirlo. L’opera di Marani, scritta con intensa lucidità e con evidente passione, può essere letta con la stessa attenzione sia da chi ama il calcio sia da chi, da perfetto profano, vuole solo conoscere una vicenda umana 29dolorosa ma esemplare.
Edizione esaminata e brevi note
Matteo Marani, “Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo”, Aliberti editore, Roma, 2013.
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