A volte usiamo una terminologia impropria per definire fatti e circostanze che sembrano esulare dal logico e dal razionale, da ciò che la nostra mente è disposta a decifrare o sopportare. Lo stesso meccanismo è utilizzato sovente per giudicare le persone e i loro comportamenti. Cosicché quando dobbiamo spiegarci gesti orientati a un male particolarmente efferato e apparentemente immotivato, definiamo chi lo compie, più spesso di quanto è immaginabile, uomo senz’anima. Eh sì perché un po’ superficialmente consideriamo l’anima come una sostanza non sostanza, come qualcosa di sganciato totalmente dalla materia, dalla ragione e – nonostante il secolo della psicanalisi appena trascorso – anche dalla stessa psiche. L’anima invece è profondamente legata alla ragione, e la sua componente razionale e cosciente è descritta, in diverse forme, da innumerevoli dottrine. Da ciò ne deriva che il male ha un’anima, ha bisogno di un’anima per compiersi, per incarnarsi, per manifestarsi, e che non può esserci male senza volontà, coscienza, pianificazione, intelligenza. Solo il fine, i motivi per cui si sceglie di commettere il male, per quanto terribile può sembrare, non sono rilevanti per il suo compiersi.
Questa premessa per introdurre un film agghiacciante, disturbante eppure assolutamente ipnotico a partire dalla sua struttura che mescola senza soluzione di continuità gli eventi di una vicenda che si ricompone pian piano come un puzzle in cui l’orrore e l’angoscia sono protagonisti dalla prima all’ultima sequenza. Tratto dal bestseller omonimo di Lionel Shriver, We need to talk about Kevin (…E ora parliamo di Kevin) è il terzo lungometraggio di una interessante ancorché poco prolifica regista scozzese, Lynne Ramsay, già premiata per il suo film d’esordio, il doloroso Ratcatcher (1999). È una vicenda che segue un vero e proprio calvario, la destabilizzante e progressiva presa di coscienza di una madre, Eva (Tilda Swinton), rispetto all’odio che il figlio prova per lei fin da piccolo. Un odio che innesca un orrore e una fascinazione per il male che il piccolo Kevin sembra sviluppare subito. Orrore che egli rende evidente solo alla madre, e che occulta facilmente ad un padre distratto e volutamente cieco di fronte alle stranezze del figlio. Il gelo che pervade l’anima del ragazzino aumenta quando arriva una sorellina, fino a palesarsi interamente nell’adolescenza, quando sceglie di commettere un atto atroce. Una vera e propria strage, con un’arma peraltro affatto convenzionale: l’arco e le frecce che gli aveva regalato il padre. Eva resterà dunque sola, preda dei suoi sensi di colpa, scansata da tutti e ritenuta madre del mostro, attesa da un destino che sembra averle tolto tutto. Tutto tranne Kevin, dietro le sbarre per le atrocità commesse ma unico legame affettivo che le è rimasto, nonostante l’orrore compiuto.
Un film inquietante come pochi altri, che introduce lo spettatore, sin dalle primissime sequenze, in un mondo in cui dominano il sangue, l’angoscia e il dolore. Nonostante ciò la pellicola della Ramsay è costruita con molta intelligenza e un pizzico di furbizia, perché non dichiara con evidenza i suoi fini e sospende chi guarda in una sorta di limbo assolutamente inospitale ma perversamente ammiccante, nel quale il confine tra orrore e dramma è volutamente labile e mai marcato con decisione. …E ora parliamo di Kevin è un’opera ricercata tecnicamente, estetizzante all’eccesso in alcune emblematiche sequenze, enfatizzata da un rosso persistente che richiama il sangue a elemento primo della suggestione proposta, restituita attraverso un montaggio che mescola passato e presente per amplificare i tormenti e infoltire gli interrogativi. In fondo, sin da quando appare l’arco in scena, tempo in cui Kevin è ancora bambino, è facile supporre che sarà quella l’arma con cui l’efferato delitto a cui alludono le immagini sin dall’innesco dell’opera si compirà. Non c’è nulla di veramente sorprendente da scoprire, in effetti, e il meccanismo narrativo è lontano dai canoni del thriller classico ma ben orientato sulla tensione e sugli stati ansiogeni. Ma non è un esercizio fine a se stesso quello della Ramsay, perché il film inquieta e cattura, impone una pur disturbante partecipazione allo spettatore diviso tra il voler cercare di penetrare l’inviolabile corazza emotiva di Kevin e l’adesione ai tormenti materni. Si resta comunque sulla scia dei sensi di colpa di una madre che a suo modo ama, e che alla fine addirittura si immola sull’altare di un amore che vuole trovare a tutti costi un senso anche laddove il senso sembra proprio non esserci.
A dare volto corpo e anima a Eva c’è una straordinaria Tilda Swinton, vincitrice per questa intensa prova d’attrice dell’European Film Awards e clamorosamente fuori dalle candidature all’Oscar (è stato un vero delitto, artisticamente parlando, non prendere in considerazione nella rassegna più importante per i film in lingua inglese una simile interpretazione). Il suo dolore inesploso, i suoi sentimenti trattenuti, i suoi occhi disperati e impotenti si incidono indelebilmente nella memoria dello spettatore. Convincenti anche i due interpreti di Kevin, quello bambino, Jasper Newell, e quello adolescente, Ezra Miller, ambedue dotati di sguardo intenso e sorriso mefistofelico senza comunque esser troppo caricati. In particolare Ezra Miller, già visto in un’altra opera gelida e dal fascino perverso come Afterschool di Campos, si conferma a suo agio nei panni del ragazzo inquieto, affettivamente disturbato e lucidamente disadattato. In parte anche l’ottimo John C. Reilly, qui spettatore passivo e colpevolmente inconsapevole dell’orrore che travolgerà anche lui.
Sospeso tra Il Presagio di Richard Donner e Elephant di Gus Van Sant, volutamente indefinito nel suo confondersi tra i generi … E ora parliamo di Kevin trae proprio da questa ambiguità la sua forza narrativa, giocando tutto sommato a sottrarre dopo aver depistato con la simbolica e inquietante sequenza d’ingresso, più che a far leva sull’effetto visivo grossolano. Prosciugando a più riprese l’orrore visivo, la Ramsay riempie la pellicola di attesa per un evento che in fondo già possiamo supporre dal principio. Tutto per lasciare il campo a lei, alla madre, ai suoi sensi di colpa che ingigantiscono con lo scorrere della pellicola. È questo il vero orrore che resta, quello che non ci abbandona una volta usciti dalla sala.
Federico Magi, marzo 2012.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Lynne Ramsay. Soggetto: tratto dal romanzo “Dobbiamo parlare di Kevint” di Lionel Shriver. Sceneggiatura: Lynne Ramsay, Rory Stewart Kinnear. Fotografia: Seamus McGarvey. Montaggio: Joe Bini. Interpreti principali: Tilda Swinton, Ezra Miller, John C. Reilly, Jasper Newell, Rocky Duer, Ashley Gerasimovich, Siobhan Fallon, Alex Manette, Lauren Fox, James Chen. Scenografia: Judy Becker. Costumi: Catherine George. Musica originale: Jonny Greenwood. Produzione: BBC Films, UK Film Council.Titolo originale: ““We need to talk about Kevin””. Origine: Gran Bretagna, USA, 2011. Durata: 112 minuti.
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