Entrare nei labirinti della fanciullezza per descrivere il tempo della meraviglia e della scoperta, della presa di coscienza della crudeltà e della bellezza del mondo è sempre impresa ardua e degna di nota per ogni forma d’arte che non si arresti alla superficie delle cose. Tomas Alfredson, ispirandosi al fortunato romanzo horror omonimo di John Ajvide Linqvist (uscito ad ottobre in Italia ed edito da Marsilio), sceglie di mettere in scena un’opera che indaga il periodo di passaggio tra infanzia e adolescenza fotografando l’avvicinamento affettivo tra due dodicenni non integrati con i propri coetanei. Lui è figlio di genitori separati ed è deriso e picchiato quasi ogni giorno da tre compagni di classe, lei è addirittura un vampiro, intrappolata da tempo nel corpo di una ragazzina. Alfredson, rispetto al romanzo di Linqvist, qui sceneggiatore, confina l’horror e le truculenze quasi totalmente nel territorio del non visto, privilegiando l’analisi ravvicinata della crescita del sentimento tra i due fanciulli, regalandoci una pellicola di viva intensità, sorprendente nella struttura narrativa e contrappuntata da un ottimo apparato tecnico e da una regia di assoluto livello. Ne viene fuori un film che sconvolge e coinvolge, che ha vinto premi in numerosi Festival collaterali e che fa gridare senza alcun dubbio al piccolo capolavoro. Dopo avervi accennato a grandi linee la trama vi spiegherò nel dettaglio perché questo film mi ha letteralmente folgorato: un vero e proprio colpo di fulmine, come non mi capitava da qualche anno.
Siamo alla periferia di Stoccolma, all’inizio degli anni Ottanta, capitale svedese in cui vive il dodicenne Oskar, bambino timido e dal volto angelico costantemente vessato da alcuni compagni di classe. È figlio di genitori separati, vive con una madre che è completamente ignara delle percosse subite dal bimbo. Una sera vede arrivare i suoi nuovi vicini, un uomo e una bambina. Contestualmente avviene un efferato delitto che sconvolge la pur disincantata e disinteressata popolazione del luogo. Oskar si trova spesso a incontrare sotto casa, per pochi minuti al calar del buio, una coetanea dal pallore cadaverico e dall’aria strana. I due fanciulli stringono presto amicizia e Oskar rivela a Eli ciò che non aveva mai rivelato a nessuno: i soprusi quotidianamente subiti. La ragazzina gli dona la forza per reagire ma cela un segreto inconfessabile: è un vampiro. La rivelazione non mancherà di arrivare e di sconvolgere la vita del bimbo, mentre gli omicidi si susseguono. Ma il sentimento è più forte della ragione, l’avvicinamento di due emarginazioni-solitudini genera un amore infantile quanto mai puro e incontaminato, fino ad un epilogo in cui all’orrore segue la possibilità, chiudendo comunque su note malinconiche.
Lasciami entrare, toccante e anticonvenzionale variazione sul tema vampiresco, non è associabile a nessun lungometraggio di genere, tanto meno al recentissimo Twilight, progetto mainstream che s’ammanta d’un più convenzionale romanticismo da esportazione, scegliendo al contrario sentieri più impervi e ricercati di narrazione e rappresentazione. Si resta violentemente affascinati dalla potenza e dalla evocazione delle immagini, da una regia ispirata che sceglie inquadrature simboliche cesellando i volti, regalando intensi primi piani dei protagonisti e una cura e un’attenzione al dettaglio che assurge a forma narrativa principe. Alfredson usa la macchina da presa come il pennello di un pittore, dipingendo quadri dall’accecante bellezza in cui sovente lascia emergere una figura (che sia in rilievo o sullo sfondo nulla cambia nella resa estetica) a fuoco e un’altra – unitamente allo scenario – fuori fuoco. È una precisa scelta estetica che valorizza l’architettura filmica in tutti i suoi elementi.
Il tema portato sullo schermo da Alfredson, mutuando gran parte della storia narrata da John Ajvide Linqvist, è di quelli che fanno breccia e lasciano profonde cicatrici dell’anima, allontanando totalmente la banalità e cercando un respiro ampio che fa di Lasciami entrare una pellicola aperta a molteplici chiavi di lettura che invita ad una profonda riflessione sui riti di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, fotografando in quasi due ore la crudele bellezza dei percorsi di formazione legati a questa età. Rimodellando abilmente l’horror gotico, rendendo quanto mai flessibile l’impianto di genere, il regista svedese ci regala una fiaba iniziatica che va ad accostare per intensità e per valore educativo – pur distanziandosene per modalità estetiche e narrative – i capolavori di Tim Burton, maestro principe e grande cantore della diversità come plusvalore e non come tara esistenziale. Ci sono sequenze davvero memorabili in questo film, per la capacità di catturare l’emozione di chi guarda nonché lo spirito dei personaggi attraverso la macchina da presa. Una su tutte, tale da lasciar senza fiato lo spettatore amante della settima arte, è quella in cui Alfredson riprende il dialogo notturno dei due bambini nel letto di Oskar, dopo che Elin era tornata dall’aver commesso un brutale omicidio “necessario”, ancora sporca di sangue, liberandosi di tutti gli abiti che ha indosso: Oskar le chiede se vuol diventare la sua ragazza non guardandola in volto: è di spalle e accoglie il suo vivo abbraccio, tanto forte da riscaldare l’algida natura della piccola vampiro e il suo cuore di fanciullo innamorato. È un momento di tenerezza assoluta, in cui la macchina da presa va ad indagare i dettagli del volto del bimbo. Qui, signori, c’è tutta la potenza del cinema, la capacità di un regista di catturare un’emozione e renderla immortale. Non si può rimanerne immuni, pena vivere un’inguaribile aridità interiore. Non scherzo, credo che mi tornerà alla mente più volte nella vita una scena che regala siffatti sommovimenti dell’anima. E potrei citare almeno un altro paio di scene madri che restano impresse nella memoria, in cui il pathos supera i livelli di guardia senza inganni.
Ciò che rende Lasciami entrare una pellicola che si eleva di molto da ciò che solitamente ci propongono nelle sale è anche la misura invidiabile con cui Alfredson restituisce questa vasta gamma di emozioni. Sia la chiave orrorifica che quella pedagogica e drammatica sono sposate sapientemente e intervallate da uno sguardo socio-antropologico sulla società svedese di provincia, non lontana da quella precedentemente fotografata da Moodysson in un’altra perla del piccolo cinema svedese, quel Fucking Amal che dieci anni or sono fece faville in madrepatria e che stigmatizzava, come nel caso in questione, una realtà fatta di morte delle illusioni e di desolazione. La cornice paesaggistica – l’inverno nevoso alla periferia di Stoccolma – amplifica tutte queste suggestioni portate ad evidenza, suggerendo al regista svedese di filmare la stessa neve in solitaria come malinconica protagonista a margine e perimetro della vicenda. Ottime le prove dei due ragazzini, soprattutto del piccolo Kare Hedebrant, che regala espressività ad ogni inquadratura. Bellissima la colonna sonora, dalle vibranti atmosfere malinconiche.
Lasciami entrare è anche un titolo quanto mai centrato e fascinosamente evocativo. È il richiamo-invocazione che Eli fa ad Oskar, un grido senza voce di dolore per l’accesso ad un mondo inaccessibile, quello degli umani per un vampiro. È un lamento d’amore, che si fa cosmico e universale, perché urlato nell’intimo per far accettare la propria diversità al mondo; un canto alla luna, un verso strozzato udibile solo attraverso il sentimento amoroso, quello puro e potente caratteristico della fanciullezza. Il crudo e al contempo poetico epilogo, che mischia l’orrore all’amore, la morte alla vita, sovrasta i confini dell’umana ragione per donarsi alla possibilità che in fondo, pur in un mondo distratto e disilluso che ha perso la capacità di guardare oltre le prigioni inconsapevoli in cui si è da tempo relegato, l’amore più improbabile sia l’unico possibile. E nessun modo di narrazione altro che non sia la fiaba può raccontarci questa semplice, irrinunciabile verità. Presentato fuori concorso al 26° Torino Film Festival, Lasciami entrare è un vero gioiello del cinema europeo contemporaneo, consigliato soprattutto a chi ha perso la capacità di emozionarsi attraverso l’arte di celluloide. Una sconvolgente miscela di atrocità e lirismo destinata a restare nel tempo.
Federico Magi, gennaio 2009.
Edizione esaminata e brevi note
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