“Ho dodici anni e questa sera sarò morta“. Niente male come incipit. Di impatto, a dir poco. In effetti la ragazzina protagonista e voce narrante de “La petite”, romanzo della giornalista, produttrice cinematografica e scrittrice Michèle Halberstadt, nota anche con il nome da sposata di Michèle Pétin, ha appena svuotato l’armadietto dei medicinali di casa. Ha prelevato sonniferi e altre pillole che la Mamma (scritto con la M maiuscola) teneva lontano dalla portata dei bambini e con l’aiuto di cinque bicchieri d’acqua ha ingoiato tutto. Questione di ore, pensa. Beve del succo d’arancia, mangia un po’ di pane e burro e va a scuola, come ogni giorno. “Non ho detto niente a nessuno. Non sono né abbattuta né su di giri. Mi sento serena, come quando si fa esattamente ciò che si ha voglia di fare. E io ho voglia di scomparire“.
Nel momento in cui perde coscienza, l’aspirante suicida si trova già a casa. Ha cercato di spiegare qualcosa al dottore di famiglia e intanto sente che il suo corpo si fa d’ovatta. A questo punto la storia si apre, in una sequenza che mi è parsa quasi cinematografica, ad un salto temporale. Quattro anni prima. La ragazzina ha solo otto anni e sua madre le spiega che, mentre lei era a letto con l’influenza, suo nonno è morto. E per lei il mondo è prossimo allo schianto. “Quali parole si possono usare quando non si tratta soltanto della morte di un nonno, bensì di un intero universo che vacilla, di un cielo che si squarcia, di una nota armoniosa che diviene stridente, di un abbandono incommensurabile? Come potevo spiegare quanto tutto questo mi facesse male? E poi, a chi poteva interessare?“. Per il nonno lei non era solo la “piccola di casa” (la petite!) ma una persona. Era lui l’unico essere al mondo che la facesse sentire amata e speciale. La morte dell’uomo è l’inizio della fine. “Ero tranquilla. Diventai silenziosa. Non ero più assennata. Ero sola“.
Il viaggio introspettivo che la Halberstadt compie all’interno dei pensieri e delle emozioni di una bambina che si sta tramutando in adolescente è delicato e drammatico. Tutto il romanzo, infatti, si dispiega nel racconto dei numerosi episodi che hanno indotto la protagonista ad ingerire interi flaconi di pillole e tentare di raggiungere il nonno. Una sofferenza che appare impalpabile, tenuta ben nascosta e dissimulata da silenzi e allontanamenti minuscoli ma costanti. “Prendevo le distanze, come un prigioniero che scava un buco nel pavimento della sua cella avanzando ogni giorno di qualche millimetro: troppo poco per farsi scoprire, ma abbastanza per farsi coraggio e perseverare nell’impresa“. Sentirsi perennemente esclusa, capire di non essere mai compresa induce la ragazzina a chiamare sua madre, suo padre e sua sorella maggiore “quelli di rimpetto“; persone che gravitano altrove, in un mondo altro, diverso, irraggiungibile.
La svilimento procede nel tempo. La protagonista si chiude sempre di più. Inizia a scrivere e si inventa una confidente immaginaria a cui dà il nome di Laure. E Laure è esattamente la persona che lei vorrebbe essere: bella, determinata, sbarazzina. “Un modello ideale per una bambina disperatamente qualunque“. Vivere all’ombra di una sorella maggiore troppo brava e troppo in gamba, è mortificante per chiunque. Anche per la nostra protagonista che, per contrasto, trova come unici interessi validi attività solitarie: l’ascolto della radio e della musica e lo scrivere. Nulla di degno, agli occhi degli altri. “L’essenziale era non dare nell’occhio. Mai, in nessuna circostanza. Meglio vivere come un topo, tranquillo nella sua tana. Mi impegnai a non disturbare più nessuno, a non turbare né la disciplina scolastica né la pace del focolare“. E la tana, ben presto, diviene prigione. La ragazzina si sente sempre più sola, abbandonata, vuota. Nemmeno una sottospecie di amicizia intrattenuta a scuola le dà conforto, anzi. La presunta amica è solo una creatura opportunista ed egoista, oltre che particolarmente ghiotta ed avida.
Il risveglio in ospedale è l’ennesimo trauma. Chi tenta il suicidio e non ci riesce si sente fallito due volte. Ma la storia della Halberstadt vuole lanciare un messaggio diverso, quasi pedagogico. La rinascita, infatti, è possibile. Anche un topolino grigio, sbiadito e mortificato può trovare coraggio provando a fidarsi dei propri sogni. Un finale che ha tutto il sapore di una resurrezione trionfale, capace di consolare il lettore più empatico o di deludere quello più cinico. In ogni caso “La petite” è un buon romanzo, scritto con passione e con grande partecipazione emotiva. La scrittura della Halberstadt è dinamica, fatta di frasi brevi, spedite e dirette molto adatte, evidentemente, al mondo espressivo ed alla sensibilità di una dodicenne.
Edizione esaminata e brevi note
Michèle Halberstadt è nata a Parigi nel 1955. E’ giornalista, produttrice cinematografica e scrittrice. Ha lavorato per parecchi anni presso l’emittente “Radio 7” e, successivamente, è divenuta caporedattrice di “Première”. L’attività letteraria ha iniziato a coinvolgerla a partire dai primi anni ’90, periodo in cui inizia anche a produrre e distribuire film. E’ sposata con il produttore Laurent Pétin.
Michèle Halberstadt, “La petite“, L’Orma Editore, Roma, 2013. Traduzione di Elena Cappellini. Titolo originale: “La petite“, Editions Albin Michel, 2011.
Pagine Internet su Michèle Halberstadt (Michèle Pétin): Scheda L’Orma Editore / Wikipedia / Imdb
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