Feroce e non premeditata è la vendetta che la quattordicenne Antoinette prepara per la madre Rosine, con la quale il rapporto è di alta conflittualità se non di odio vero e proprio.
“Era una ragazzina di quattordici anni, lunga e magra con il volto pallido di quell’età, tanto smunto da apparire agli occhi degli adulti come una macchia rotonda e chiara, priva di lineamenti, le palpebre socchiuse, cerchiate, la boccuccia serrata…Quattordici anni, i seni che premono sotto l’abito stretto da scolara, che feriscono e impacciano il corpo debole, infantile…i piedi grandi e quelle lunghe bacchette con all’estremità due mani arrossate, dalle dita sporche d’inchiostro, che magari un giorno diventeranno le più belle braccia del mondo…Una nuca fragile, capelli corti, incolori, secchi e leggeri…”. (p.10-11)
Ragazzina non amata, tollerata con fatica da una madre troppo presa da sé stessa che non perde occasione per umiliarla di fronte a terzi, Antoinette sogna l’amore, la libertà, un debutto mondano e una liberazione da quella tiranna nevrotica e fastidiosa. Mentre spera e attende, le si presenta l’occasione per far fallire il progetto materno di un faraonico ballo nella loro residenza che per l’evento verrà letteralmente messa a soqquadro.
La figlia – esclusa totalmente dalla festa – sarà costretta a cenare usando come tavolo un’asse da stiro posta su cavalletti e a dormire nel ripostiglio, ma tutti i preparativi, l’attesa, l’agitazione saranno vani e l’orgoglio materno subirà una sconfitta rovinosa, mentre Antoinette, fintamente contrita, sorriderà ironicamente di sottecchi fingendo di consolare la genitrice.
Esagerata come tutti gli adolescenti, Antoinette agisce d’impulso, sull’onda di un irrefrenabile odio, di un desiderio di rivalsa che è reazione al sentirsi rifiutata, da tutti i punti di vista, da Rosine. In origine c’era l’amore per la madre, ma si è dissolto quando quella figura, che doveva essere all’altezza delle sue aspettative, si è rivelata inadeguata e inconsistente, incapace di riconoscerla come futura donna, come persona con sentimenti, desideri, ambizioni.
Rosine l’ha inchiodata, da parte sua, al ruolo di eterna bambina, più facilmente gestibile e soprattutto non concorrenziale: una ragazza da marito potrebbe rubarle la ribalta, dare adito a confronti, rivelare la sua età che avanza.
Rosine è una donna di umili origini: lo si vede dal suo agile modo di vestirsi, tipico di chi non è abituato alla servitù, dai suoi interrogativi sul comportamento da tenersi in società. È un’ex dattilografa che si è sposata poco prima della nascita di Antoinette. L’attuale marito non è stato il suo primo compagno, ma Alfred Kampf, uomo d’affari ebreo che ha avuto la fortuna di arricchirsi con le speculazioni in borsa , le ha assicurato benessere e sicurezza economica dopo qualche anno di fatica.
Passione di Rosine sono i bei vestiti, le auto, i gioielli pacchiani che indossa in gran numero, ostentandoli con risultati ridicoli: “Rutilava, scintillava come un reliquiario”. (p.62)
Delle sue origini si vergogna e intima alla figlia di tacere sulla loro più misera abitazione precedente, abituando dunque la ragazzina alla menzogna o, preferibilmente, al silenzio di chi non ha voci in capitolo.. Verso Antoinette è arrogante, autoritaria, sprezzante e per nulla affettuosa, è troppo presa da sé stessa e dall’autocontemplazione. Ecco come procede nel truccarsi: “Prese a truccarsi minuziosamente il viso: dapprima uno spesso strato di crema che spalmò a due mani, poi il belletto sulle guance, il nero sulle ciglia, una linea sottile lungo le palpebre per allungarle verso le tempie, la cipria…” (p.60)
Un capello bianco è un dramma, sua ossessione è il tempo che scorre e la fretta di vivere e godere prima che sia troppo tardi, suo mito è l’eterna giovinezza, sua aspirazione massima il protagonismo sociale, il sentirsi parte, grazie al denaro, di quel mondo scintillante dal quale le sue origini l’hanno esclusa a lungo.
Da parte sua Alfred la sopporta e la asseconda più per il quieto vivere che per condivisione, è il tipico borghese, interessato soprattutto agli affari, ritiene i gioielli l’investimento più sicuro e la moglie è stata in fondo un altro investimento: quando l’ha sposata, togliendola dalla povertà, era carina e intelligente, un buon soprammobile per non sfigurare in società.
Alla fine il marito s’accorge di non tollerare più le sue scene isteriche e i suoi modi.
Come padre Alfred è una figura abbastanza neutra, non nettamente negativo come Rosine, ma non significativo agli occhi di Antoinette, che viene gestita soprattutto da madre e istitutrice.
Riguardo la ragazza, i turbamenti adolescenziali in particolare sono molto ben descritti dalla Némirovsky: il non sentirsi amati da nessuno, la tendenza a considerare le situazioni eterne, immutabili, la sensazione di venir esclusi dal banchetto della vita, i pensieri suicidi, il desiderio di fuga e d’amore, il disprezzo per l’ambiente famigliare, del quale si notano i difetti e i limiti.
È ipotizzabile una radice autobiografica del romanzo, infatti il rapporto dell’Autrice con la madre fu pessimo e il ritratto di Rosine corrisponde a quello di Fanny Némirovsky.
Le relazioni tra le due donne non si risolsero mai e quest’anomalia si riflette ne “Il ballo”, che costituisce una manifestazione letteraria di un odio vissuto nella realtà.
Come già in David Golder viene delineata qui la cosiddetta alta società, costituita da speculatori in Borsa, ex prostitute, ex truffatori, gigolò, nobili che spesso hanno comperato il titolo.
Il quadro è, come al solito, lucido e impietoso, tratteggiato con il consueto stile essenziale, ma efficacissimo della Némirovsky: è un mondo vuoto, superficiale, formalista, ipocrita, è l’aristocrazia del denaro che ostenta la propria ricchezza e si circonda di oggetti tanto costosi quanto di pessimo gusto, come la “coppa di malachite ornata da draghi cinesi in bronzo dorato”.
È qui che Antoinette cresce e si percepisce diversa da questa gente: “Nessuno le voleva bene, nessuno al mondo… Ma non vedevano dunque – ciechi, imbecilli – che lei era mille volte più intelligente, più raffinata, più profonda di tutti loro, di tutta quella gente che osava educarla, istruirla… Arricchiti volgari, ignoranti…”(p.34)
La futura scrittrice implacabilmente critica si sta già preparando.
Romanzo breve – forma che si addice perfettamente alla Némirovsky – ben costruito, “Il ballo” condensa vari temi importanti in pagine di grande efficacia e abilità
articolo apparso su lankelot.eu nel novembre 2007
Edizione esaminata e brevi note
Irene Némirovsky, (Kiev 1903-Auschwitz 1942) scrittrice ucraina in lingua francese. Figlia di un ricco ebreo russo di origini francesi, ex commerciante di granaglie e divenuto uno dei più potenti banchieri di tutte le Russie, si appassiona alla letteratura – soprattutto francese – in giovanissima età. Impara il francese dalla sua governante, ma parla anche il polacco, il russo, l’inglese, il basco, il finlandese e capisce lo yiddish.
Nel 1917 a causa della rivoluzione la Némirovsky lascia in fretta San Pietroburgo con la famiglia per rifugiarsi in Francia, dove si sistema definitivamente. Il suo primo romanzo “David Golder” (1929), pubblicato da Grasset, riscuote grande successo. Nel 1926 sposa Michel Epstein, giovane ingegnere, dal quale avrà due figlie. Negli anni successivi a causa dell’antisemitismo si converte al cristianesimo e fa battezzare le figlie, nella speranza di salvarsi dalla furia nazista. Arrestata, morirà ad Auschwitz, il marito avrà la stessa sorte poco tempo dopo.
Opere: “Il ballo” (1930); “Come le mosche d’autunno”(1931); “L’Affaire Courilof” (1933); “Le vin de solitude” (1935); “Suite francese “ (postumo nel 2004, pubblicato dopo il ritrovamento del manoscritto).
Irene Némirovsky, Il ballo, Milano, Adelphi 2005. Titolo originale “Le bal”. Traduzione di Margherita Belardetti.
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