“…’Pascua di Resurressione’, una cosa così andrebbe bene anche a me, mi piacerebbe risorgere, spuntare all’improvviso da un cassone di pietra, bandiera alla mano, e fare bau-sète!” (p.200)
Questa prova narrativa di Meneghello si colloca dopo “I fiori italiani”, tra i due testi esce la raccolta di saggi “Jura. Ricerca sulla natura delle forme scritte”.
È arrivato finalmente il dopoguerra e i giovani veneti che avevano organizzato il loro anomalo gruppo partigiano cercano di riprendere le fila della loro vita.
I ricordi sono vivi e tumultuosi, l’esperienza passata è stata intensa e irripetibile e ora alla libertà conquistata s’accompagna una dimensione di disorientamento, di desiderio di un rinnovamento totale. Al senso di forza s’alterna l’impressione di non riuscire ad agganciare bene i problemi, una dimensione d’inadeguatezza e una gran voglia d’apertura, di uscita dai confini sempre più asfittici e provinciali dell’Italia.
Il dopoguerra sa di caffè e sigarette americane dall’aroma dolce, accuratamente sniffate posandosele tra naso e labbro superiore prima di fumarle, sa di ragazze sportive e intraprendenti, sa di lunghe corse in moto sull’altopiano di Asiago, sa di goliardate e di sbronze con gli amici alternate a discussioni impegnate sulla politica e sul destino dell’Italia finalmente liberata.
Al narratore piacerebbe fare un inventario per riordinare tutto, ma non ne è capace.
Lungi dall’essere un libro scritto di getto subito dopo i fatti vissuti, “Bau~sète!” contiene la prospettiva della maturità, è un testo ben costruito dove, attraverso la memoria, si delinea una panoramica dei problemi d’allora, delle speranze, si motiva l’uscita di scena finale del protagonista (Meneghello vinse una borsa di studio per l’Inghilterra e lì insegnò per molti anni, scegliendo dunque il dis-patrio).
L’atmosfera in quegli anni è ancora rovente: vi sono vendette, episodi di giustizia sommaria e anche l’Autore dice di aver compiuto qualche tentativo d’intimidazione (è stato lui stesso oggetto di lettere anonime e calunnie) con scarsa efficacia.
“Io almeno avrei esitato a riconoscere che in profondo, e a dispetto di ciò che tendevo a dire, non credevo nella ‘giustizia popolare’, cioè nella capacità innata della gente di linciare la gente giusta”. (p.31)
Poco per volta tutto si sistema, le armi vengono consegnate.
Nell’estate e autunno del ’45 Meneghello è a Padova addetto al Direttivo Regionale del Partito d’Azione, ma ha anche legami col partito a Vicenza. Si laurea nel tardo autunno, nel 1946 è assai attivo a Vicenza sia col partito che con una cooperativa “per la promozione di fantasie meccaniche”, a partire dell’estate partecipa di più alla vita del suo paese natale fino alla partenza per l’Inghilterra.
Allo ristabilirsi graduale dell’ordine emergono i problemi della politica e il progressivo distacco dell’Autore, che si sente soffocare nell’ambiente italiano, non solo, spesso si ritrova inadatto a dialogare col popolo, non riesce a interpretarne i desideri pur con tutte le sue abilità dialettiche.
Lo vediamo così condurre una forte campagna d’agitazione in favore delle filandiere che suscita reazioni negative nelle dirette interessate. In fondo conosce poco della loro vita…
Oppure realizza una bella “allocuzione colta in dialetto” per uno sparuto gruppetto di abitanti di un paesino di montagna, viene capito, ma rimane quest’ombra del dialetto ai loro occhi, avrebbero preferito che lui dimostrasse di saper parlare bene l’italiano e si rivelasse per quello che era, un letterato e non un popolano. Il proselitismo non è il suo forte.
Per Meneghello la politica dev’essere “disegno, diagnosi generale, scelte per linee maestre, pensieri inglobati nel tessuto storico dei fatti” (p.55), si ritrovano invece animosità e divisioni interne al Partito d’Azione, il rifiuto da parte del popolo, la sconfitta elettorale. L’Autore si sente a disagio e la delusione si fa strada.
Al congresso di Roma: “In quel momento ebbi l’impressione di riconoscere una diversa dimensione della politica, e invidiai chi la può fare con la gente e con le idee della gente anziché con le proprie idee.
Mi parve anche di capire che in Italia per un tempo indefinito anche la gente meno objectonable avrebbe continuato a fare la politica nel modo assurdo in cui la vedevo fare (o dire) davanti a me; mentre gli altri, avidi e furbi, già allungavano le mani”. (p.69)
Sua aspirazione sarebbe realizzare una rivista – desiderio comune a moltissimi uomini di cultura – che riunisse un gruppo d’intellettuali capaci di fare gruppo e rinnovare l’Italia. Lunghe discussioni su questo e altri argomenti si svolgono con il suo amico Franco (nella realtà Licisco Magagnato) nei giorni del congresso.
Meneghello, animato da fervore morale – gli interessi linguistici per il dialetto e la sua potenza espressiva all’epoca non si sono ancora sviluppati – sogna alta cultura trasmessa attraverso il veicolo del linguaggio, eppure s’accorge d’avere una conoscenza ancora libresca, provinciale della realtà.
“L’Italia era un paese arretrato: questo pensiero mi pareva una conquista esaltante. La nostra vita, la nostra cultura, erano arretrate rispetto a quelle dell’Europa civile”. (p.76)
I giovani cercano di allargare la loro cultura leggendo autori stranieri e italiani (Kafka, Montale in primis) e sono animati dal desiderio di divulgare le loro scoperte: il problema è come farlo, come mettersi in relazione soprattutto con i ceti meno colti per elevarne le conoscenze, per educarli senza imbonirli come fanno altri.
La passione è molta, i mezzi pochi e l’impresa ardua: il popolo si rivela spesso refrattario, non reagisce se non viene preso in causa “l’intaresse”.
Il partito dev’essere “un seminario di cultura e di libertà: uno spaccio gratuito di idee, di cognizioni, di riflessioni critiche…” (p.96)
Il progetto è ambizioso e idealistico: “La verità è che se al ‘popolo’ si vuole davvero comunicare qualcosa di genuino e di prezioso, questo dev’essere ciò che realmente appare a noi genuino e prezioso: per esempio, appunto, i Mottetti di Montale! E questi non potevano cambiare, altro che in modi orribilmente marginali, la vita e la mente dei miei amici. Nel mio slancio di onestà, di rispetto per il popolo, di amore per la poesia, mi pareva di sentirmi irresistibilmente trasportato verso un dilemma: O buttar-via Montale, o buttar-via il popolo…” (p.99)
Sono anche gli anni del Politecnico e in un primo momento i giovani credono di trovare in questa rivista un modello condivisibile, ma ben presto si fa strada un senso di potente delusione, di claustrofobia. La critica è feroce: il Politecnico ha un’aria non didattica, ma catechistica, “con gli argomenti d’obbligo e gli argomenti tabù, e i repertori del bene e del male, e il pre-selezionatore sempre in funzione” .(p.100)
Le difficoltà oggettive non mancano: molti amici del’Autore iniziano a lavorare a Schio nell’industria tessile, si ritengono fortunati perché guadagnano un po’di più, ma per arrivare al lavoro devono percorrere molta strada in bicicletta. Si alzano all’alba, tornano al tramonto, la sera sono stanchi e non hanno voglia di leggere il Politecnico o di fare discussioni letterarie. È un problema concreto col quale i nobili intenti del giovane Meneghello si scontrano, eppure non è suo desiderio offrire al popolo solo gli scarti della cultura.
Ben presto si stagliano due realtà nel Veneto: da un lato l’arte di arrangiarsi dapprima col “ricupero” dei residuati bellici e poi destreggiandosi nel mondo degli affari, della piccola imprenditoria famigliare, come la compagnia di autolinee dei fratelli Meneghello, e dall’altro l’emigrazione.
Lo stesso autore inizia a vedere Parigi e Londra come “favolosi recinti di idee” (p.108)
Lo spirito di “Libera nos a malo” fa capolino nella descrizione di zii, cugini, amici nell’atmosfera paesana sempre raccontata con ironia e gusto.
Alla fine l’Autore sceglie di lasciare l’Italia: è un bel giovanotto, in patria non lo si nota, al di là delle Alpi la gente dice vedendolo “Come sono belli gli italiani!”
Aria nuova, lontananza dalle ruberie politiche e dai clientelismi: Meneghello vuol restare estraneo a tutto questo senza rinunciare all’amata letteratura.
Articolo apparso su lankelot.eu nel giugno 2007
Edizione esaminata e brevi note
Luigi Meneghello (Malo-Vicenza 1922), scrittore italiano. Ha studiato Filosofia all’Università di Padova. Dopo l’8 settembre partecipa alla Resistenza e aderisce al partito d’Azione. Nel 1947 si trasferisce in Inghilterra, dove fonda e dirige la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di Reading.
Dal 1980 divide il suo domicilio tra Reading e Thiene, dove nel 2000 si trasferisce definitivamente dopo la morte della moglie.
Sua opera prima è ”Libera nos a Malo” (1963), cui seguono “I piccoli maestri” (1964, ed. riveduta 1976), “Pomo pero” (1974), “Fiori italiani” (1976), “Bau-sete” (1988), “Il Dispatrio” (1994). Ha scritto anche vari saggi che contengono elementi autobiografici e studi sulle tradizioni dialettali: “Jura” (1987), “Maredè Maredè” (1991). Negli ultimi anni Meneghello ha pubblicato tre volumi di “Carte”, che raccolgono i suoi appunti dagli anni Sessanta a oggi. Il volume “Trapianti” comprende una serie di traduzioni poetiche dal’inglese al dialetto vicentino.
Nel 2002 il regista Mazzacurati e l’attore Marco Paolini gli hanno dedicato il film “Ritratti”, frutto di una conversazione con Meneghello svoltasi in tre giornate, durante le quali lo scrittore rievoca le vicende della sua vita.
Luigi Meneghello, Bau~sète!, Milano, Bompiani 1996. Introduzione di Ernestina Pellegrino. Cronologia e bibliografia di Francesca Caputo.
Approfondimento in rete: http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Meneghello
Sul film: http://www.jolefilm.com/files/index.cfm?id_rst=42&id_elm=247
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