L’esordio cinematografico di Pupi Avati, datato 1968, lo vide cimentarsi in una sorta di horror grottesco dal titolo già ampiamente emblematico: Balsamus, l’uomo di Satana. L’opera contiene, senza ombra di dubbio, molte tracce del suo cinema successivo, soprattutto quello dei Settanta, periodo in cui gotico, fiabesco, grottesco e orrorifico si mescolarono sovente senza soluzione di continuità nei suoi lungometraggi. Si evidenziano, comunque, una riconoscibile cifra autoriale e un’estetica ben delineata, oltre ché la scelta di una connotazione geografica ben precisa. Come il successivo Thomas… gli indemoniati (1969), Balsamus fu finanziato da un misterioso imprenditore che aveva sicuramente riconosciuto delle doti artistiche non trascurabili nell’allora sconosciuto regista bolognese, il quale dimostrò con la sua opera prima un gusto per il misticismo e per le ambientazioni eccentriche, pur se sempre calate in un contesto rurale e provinciale, credulone e bizzarro, ma al contempo assai inquietante. La linea sottile attraverso la quale Avati ha sempre separato la farsa dalle atmosfere inquietanti e disturbanti è ancor meno facilmente delineabile nelle sue pellicole dei Settanta, prova ne sono proprio Balsamus e Thomas, unitamente a Tutti defunti… tranne i morti, restando al genere. Diverso è il caso del pienamente tenebroso La casa dalle finestre che ridono (1976), suo indubbio capolavoro di genere, mentre ritorna il beffardo, il cinico e l’allegorico condito dal farsesco, in opere come La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone (1975) e Bordella (1976). Ma torniamo a Balsamus, opera folle, bizzarra e a tratti largamente sconclusionata in cui Avati gioca con l’ignoranza della provincia emiliana, immaginando una sorta di strambo e buffo mistico – il nano Tonelli, frequentissimo nei suoi primi film -, con improbabile corte al seguito, che compie prodigi ben remunerati dalla popolazione locale.
In un casolare della campagna padana, arredato in stile retrò, vive Balsamus con i suoi interessati inquilini-servitori, tutti abbigliati con abiti settecenteschi. L’eco delle sue imprese ha prodotto, nell’arco di pochi anni, un notevole interesse dei cittadini della provincia che si recano da lui per ricevere i miracoli più disparati: si va dall’ingravidamento di donne sterili, alle cure delle malattie, al trovar consorte alle zitelle, e così via. In più a Balsamus spetterebbe una sorta di ius primae noctis, attraverso il quale le vergini adolescenti ricevono in lascito un diploma che attesta l’avvenuta copula tra il maestro e le sue future adepte. Visto l’accrescersi della fama, il suo seguito di fedeli interessati cerca anche di esportare fuori dalla provincia la sua figura, affidando la propaganda a pubblicitari di professione. Ma non tutto quel che appare è davvero come sembra: Balsamus è attorniato da lupi famelici che gli sono intorno per interesse. Sovente lo ingannano, come nel caso delle nottate con le vergini, dei quali corpi godeva il suo assistente, e sono pronti a voltargli le spalle alla prima occasione buona. Fino ad un epilogo cinico e beffardo.
Come si diceva in sede di presentazione, un film che vira decisamente nei territori dell’assurdo, che non si cura molto della sceneggiatura, privilegiando l’onirico e il fiabesco, sempre mantenendo i toni grotteschi e surreali. A ben guardare, di spaventoso in senso orrorifico c’è poco o nulla, ma si nota già prepotentemente la propensione di Avati a contaminare con forti dosi di humour nero, che a tratti sfiora il puro cinismo – emblematico il finale, ancorché abbastanza criptico e eccessivamente simbolico -, con racconti in bilico tra il farsesco e il metafisico. Ci sono eccesso e visività profusi a piene mani, in questa prima opera avatiana, riscontrabili non soltanto dalle ambientazioni e dalle ricercate scenografie, ma anche da uno stile di regia molto libero che lascia spesso a briglia sciolta la camera a mano e che cerca di catturare, con rapide zoomate, la follia e la buffa caratterizzazione dei volti. Proprio il lavoro sulla ricerca dei volti, nelle sue prime pellicole peraltro indirizzato nella ristretta cerchia di artisti amici e conterranei, suggerisce un parallelo con una delle peculiarità dell’estetica pasoliniana. Ma se i primi piani di Pasolini erano centrati sulle espressioni gravi, dolorose e disincantate del proletariato urbano, quelli di Avati cercano di catturare visi trasfigurati dalla follia e dall’eccesso, tra il clownesco e l’inquietante. In questo senso, inseguendo più le suggestioni felliniane che pasoliniane. Non a caso, il regista bolognese ripropone più volte il nano Tonelli nelle sue opere dei Settanta, facendone uno dei suoi primi feticci, unitamente a Gianni Cavina, qui peraltro in un ruolo più defilato ma egualmente emblematico.
Nonostante l’eccesso e l’assoluta mancanza di linearità, nonostante i passaggi criptici e l’evidente lentezza narrativa, Avati dimostra già con Balsamus di avere un’idea molto chiara di quello che sarà il suo cinema. Oltre alla regia e alle scenografie, in effetti, ruolo importante riveste sempre la colonna sonora, già nel caso in questione ampiamente narrativa e utilizzata in modo volutamente ridondante e ossessivo. Quel che conta è costruire la giusta atmosfera, che come è palese in Balsamus, nel suo primo cinema strutturalmente anarchico e necessariamente autarchico va inequivocabilmente a sovrastare l’importanza della scrittura. Il primo Avati è, direi volutamente, tutto visività e assenza di misura, ma come gli appassionati sanno non ci vorranno molti anni per costruire opere magiche e ricche di suggestioni che cominciano a equilibrare fascinosamente i piani, senza per questo perdere in autorialità. È il caso di La casa dalle finestre che ridono, tripudio del thriller gotico, ma anche delle sue opere più complesse, amare e sentimentali, come Festa di laurea e Una gita scolastica, culminando nel cinico e disincantato Regalo di Natale, opera che suggerisce una prima ricognizione critica sulla ricercatezza, l’efficacia e la complessità del cinema avatiano. Il tutto mantenendo quella cifra autoriale che lo ha consacrato come uno dei pochi veri talenti che il decadente cinema italiano ha partorito nell’ultimo trentennio. Balsamus è certo una pellicola per cinefili appassionati, ma nondimeno un passo obbligato per chiunque voglia studiare l’arte filmica del regista bolognese. Sempre se riuscite a procurarvelo, in quanto, al pari di Thomas… gli indemoniati, è assolutamente introvabile.
Federico Magi, marzo 2010.
Edizione esaminata e brevi note
Follow Us