In un castello ai piedi dei Carpazi si ritrovano, dopo quarantun anni, due uomini un tempo legati da un fortissimo legame d’amicizia, uno di quei sodalizi maschili di rara intensità e durata paragonabile a quello dei gemelli.
“L’amico, così come l’innamorato, non si aspetta di veder ricompensati i suoi sentimenti. Non esige contropartite per i suoi servizi, non considera la persona eletta come una creatura fantastica, conosce i suoi difetti e l’accetta così com’è, con tutto ciò che ne consegue.” (p.94)
A un certo punto quest’alleanza s’è spezzata e tra i due si è scavato un abisso non solo spirituale, ma spaziale. L’uno è partito per l’Estremo Oriente, l’altro è rimasto nel suo avito castello a rimuginare su quanto è accaduto, a cercarne le motivazioni, lasciando che i sentimenti si decantassero nel corso degli anni fino a ridursi all’essenziale. Tra i due aleggia la figura di una donna morta da molto tempo, Kristzina.
Lavorando su una trama abbastanza semplice, Márai riesce a conferire una profondità abissale ai sentimenti descritti e a scavare impietosamente nell’animo dei protagonisti, portandone alla luce le sfumature più riposte per giungere all’essenziale.
La spasmodica ricerca della verità da parte del generale Henrik – colui che non s’è mosso dal castello – s’articola in lunghissimi monologhi che ricostruiscono le vicende della sua vita e di quella dell’amico e si focalizza infine attorno a due domande fondamentali, che non avranno mai risposte certe.
Il desiderio di conoscere e quello di vendicarsi l’hanno tenuto in vita finora, egli sapeva bene che Konrad, il suo amico, sarebbe ritornato un giorno al castello e l’ha atteso per tutti quegli anni: ora s’incontrano per l’ultima volta e sono due vecchi che non hanno niente da perdere, consapevoli di non possedere una nuova possibilità, perciò liberi di parlare e di rievocare un passato mai sepolto.
Henrik è rimasto per quarantun anni inchiodato a rimuginare sui fatti – da questo punto di vista ricorda certi dannati danteschi fissi nel loro peccato – ha vissuto in pervicace solitudine e orgoglio, isolato nel suo castello, nel quale non ha permesso entrassero neppure comodità moderne.
All’incontro con Konrad si prepara meticolosamente, ricreando lo stesso scenario di quarantun anni prima, lo stesso arredamento, con le candele azzurre, le tre poltrone davanti al caminetto nella medesima posizione, tutto in lui è memoria perfetta e vendetta, una vendetta consumata a freddo e immaginata nella mente infinite volte.
L’ambientazione riveste un ruolo essenziale nel romanzo, sia per la cura con la quale Márai la descrive, sia perché il castello sembra vivere di vita propria, è il luogo della memoria.
“Il castello era un mondo a sé stante, come quei grandi e sfarzosi mausolei di pietra in cui languono le ossa di intere generazioni e si dissolvono le vesti funebri di seta grigia o panno nero di donne e uomini vissuti in altri tempi. Esso racchiudeva in sé il silenzio, come un recluso che vegeti esanime sulla paglia marcescente di un sotterraneo, con la barba lunga, vestito di stracci e coperto di muffe. Racchiudeva anche la memoria, la memoria dei defunti, che si annidava nei recessi più occulti, così come i funghi, le mucillagini, i pipistrelli, i ratti, gli insetti si annidano nelle cantine umide dei vecchi edifici. Le maniglie delle porte conservavano il tremito di una mano, l’emozione dell’attimo in cui essa aveva esitato a completare il suo gesto. Ogni dimora in cui le passioni abbiano investito con violenza gli uomini si riempie di questa sostanza caliginosa.”. (p.29)
In questo luogo a ritrovarsi sono due sopravvissuti, consapevoli entrambi della disintegrazione del loro mondo.
L’Impero è ormai finito, caduto a pezzi e grande è la nostalgia del generale – e probabilmente dello stesso autore – nel ricordarlo.
“Vienna, l’Impero, ungheresi, tedeschi, moravi, cechi, serbi, croati e italiani, formavano un’unica grande famiglia, e all’interno di questa ciascuno intuiva in segreto che l’unico in grado di mantenere l’ordine, in quella marea di desideri, inclinazioni e passioni tumultuose, era l’imperatore, che era contemporaneamente sergente maggiore in servizio perpetuo e maestà, funzionario statale con i coprigomiti in lustrino e grand seigneur, bifolco e sovrano”. (p.54)
Dopo aver capito che la modernità non faceva per lui e aver visto la propria vita spaccata in due per quanto accaduto con Konrad, Henrik ha compiuto la sua scelta d’attesa e solitudine, cristallizzando la sua vita intorno a ritmi molto precisi, rigorosi, ordinati. Eppure le braci della passione non si sono estinte.
“Una passione che il tempo ha soltanto attutito senza riuscire a estinguerne le braci”. (p.148)
C’è un destino che governa le storie di tutti i personaggi del romanzo, non si tratta però di una forza cieca: “L’uomo e il suo destino si realizzano reciprocamente modellandosi l’uno sull’altro. Non è vero che il destino si introduce alla cieca nella nostra vita: esso entra dalla porta che noi stessi gli abbiamo spalancato, facendoci da parte per invitarlo a entrare. Non c’è infatti essere umano abbastanza forte e intelligente da saper allontanare, con le parole o con i fatti, il destino infausto che deriva, secondo una ferrea legge, dalla sua indole e dal suo carattere”. (p.139)
Nel mondo descritto dal generale esistono varie razze d’uomini e di donne: la sua e quella di suo padre, metodica, precisa, legata ai propri luoghi d’origine e quella cui appartengono sua madre, Konrad e Kristzina, la razza degli artisti, innamorati della musica, legame che li unisce e che risulta incomprensibile e odioso al generale.
Ciascuna razza deve seguire il proprio destino e il richiamo del proprio sangue, non vi è altra soluzione, nella visione pessimista di Márai gli uomini sottostanno a questa legge, bruciati in eterno delle loro passioni, fino alla morte.
Proprio la forza di tale passione è l’unico elemento in grado di conferire un qualche senso all’esistenza, anche a quella di due vecchi, sui quali altrimenti si potrebbe distendere solo un velo d’umana pietà.
Da vero aristocratico della scrittura Márai offre con questo romanzo un autentico capolavoro per la profondità con cui analizza le passioni umane, per la raffinatezza dell’ambientazione e delle descrizioni, per l’impeccabile vivezza dei personaggi.
Articolo apparso su lankelot.eu nel dicembre 2006
Edizione esaminata e brevi note
Sándor Márai (Kassa 1900– San Diego 1989) scrittore ungherese, il cui nome completo è Sándor Márai Grosschmid. Di famiglia patrizia, esordì come poeta, ma la sua natura è di prosatore. Opere: Confessioni di un borghese (1934); Le braci (1942); L’eredità di Eszter (1939); La recita di Bolzano (1940); Truciolo (1932); Divorzio a Buda (1935); La sorella (1946).
Nel 1948 quando in Ungheria fu abolita la democrazia parlamentare abbandonò per sempre il suo paese e visse sempre più isolato. Morì suicida in America, nazione della quale aveva assunto la cittadinanza.
Per decenni la sua opera fu bandita dall’Ungheria.
Sándor Márai, Le Braci, Milano, Adelphi 1998. A cura di Marinella D’alessandro.
Titolo originale: A Gyertyák Csonkig Egnek.
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