Brodskij Josif

Fondamenta degli Incurabili

Pubblicato il: 24 Ottobre 2006

In una sera di dicembre un viaggiatore straniero, da solo, arriva alla stazione di Venezia e aspetta l’unica persona che conosce in tutta la città: una donna. Una bella donna, incontrata per la prima volta parecchi anni prima in Russia.

Questo insolito approccio a Venezia costituisce l’esordio di un libretto assai originale, un insieme di brevi capitoletti contenenti osservazioni, riflessioni aneddoti, descrizioni della città unica al mondo, vista attraverso gli occhi di uno straniero, un viaggiatore colto – cita infatti numerosi autori italiani (Montale, Saba, Dante, Svevo) e stranieri (Pound, Auden) – un letterato dal raffinato senso estetico, un cultore del bello.

La prima sensazione che colpisce il narratore – in una città nata per essere guardata e contemplata – non è però visiva, bensì olfattiva: percepisce infatti un odore di”alghe marine sottozero” (p. 10), un odore che egli ama e che ritiene “sinonimo di felicità” (p. 10).

Solo successivamente entra in gioco la vista, che si rivelerà poi essenziale.

Il fondale era affollato di sagome scure di tetti e cupole, con un ponte che si arcuava sopra la curva nera di un tratto d’acqua di cui, da una parte e dall’altra, l’infinito ritagliava le estremità. Di notte, in terra straniera, l’infinito comincia con l’ultimo lampione, e lì il lampione distava solo venti metri. C’era una gran quiete. Di tanto in tanto qualche battello appena illuminato s’intrometteva a disturbare con le eliche il riflesso di un grande «Cinzano» al neon che tentava di assestarsi sulla nera incerata dell’acqua. Prima che vi riuscisse, sarebbe tornato il silenzio” (pp. 11-12).

Muoversi per Venezia, nella sua struttura labirintica, è anche spostarsi sull’acqua, perdere in parte l’orientamento, forse per questo la narrazione di Brodskij non è un racconto continuo, ma un susseguirsi di prose, riflessi che ondeggiano, vanno e vengono, si spostano da un argomento all’altro, quasi spiando la vita riposta di Venezia, i suoi interni abitativi o le statue dei leoni poste un po’ ovunque.

Il lento procedere del vaporetto attraverso la notte era come il passaggio di un pensiero coerente attraverso il subconscio” (p. 16).

L’atmosfera complessiva aveva qualcosa di mitologico, anzi di ciclopico, per essere precisi; ero entrato in quell’infinito che contemplavo dai gradini della Stazione, e ora avanzavo tra i corpi dei suoi abitanti, passavo davanti al capannello di ciclopi assopiti che ogni tanto, nell’acqua nera che li cingeva, alzavano e poi abbassavano una palpebra” (p. 16).

Brodskij rivela di aver continuato a recarsi a Venezia per ben diciassette anni, sempre durante l’inverno, sia per evitare le orde dei turisti, sia perché in quella stagione vi è la sospensione delle lezioni all’università dove insegna.

Eccolo allora muoversi per la città, pur sapendo di non poterla possedere totalmente e di non appartenervi: egli rimane infatti uno straniero, un nordico semplicemente fedele a questo luogo della bellezza, fatto d’acqua e pietre e riflessi, le cui origini sembrano perdersi nella memoria stessa del pianeta.

Il suo sguardo attento e profondo riesce talvolta ad insinuarsi in qualche dimora veneziana: un antico palazzo, ridondante di tendaggi, specchi e polvere, rimasto per secoli chiuso e quindi fuori dalla storia, permeato dal senso del nulla e della dissoluzione; un appartamento più popolare affittato per un periodo oppure qualche scorcio d’interno intravisto attraverso le finestre.

Aristocratico marmo e comune mattone sono i materiali dove la luce veneziana s’insinua, in un eterno gioco visivo.

Venezia è “la città dell’occhio” (p. 27), “lo scopo comune di tutte le cose, qui, è sempre lo stesso: farsi vedere” (p. 28).

Il senso più sollecitato è dunque la vista: Venezia è, si mostra, sfila, si riflette e l’autore la coglie in momenti particolarissimi, come con l’acqua alta o con la nebbia.“Nebbia vuol dire tempo per leggere,… […] In breve, tempo per obliare se stessi, nella scia di una città che ha smesso di farsi vedere. Senza volere, obbedisci alla città, specialmente se anche tu, come lei, non hai compagnia. Non essendo nato in questa città, puoi vantarti almeno di avere in comune con lei l’invisibilità” (p. 53).

Stato d’animo e fattore atmosferico si collegano, un’affinità si crea comunque tra colui che scrive e la città cui non appartiene, ma che sente un poco sua, luogo di pace, di riposo, luogo cui ritornare ogni anno con piacere, luogo da ricordare nei momenti difficili. Incanto e adesione alla città.

Divagando, l’autore racconta la storia del suo rapporto con Venezia, legato alla lettura, nel 1966, di un romanzo qui ambientato di un autore francese poco noto, tradotto in russo. Di qui il suo incuriosirsi alla città, il suo viverla ormai non da semplice turista, ma da viaggiatore colto e curioso, appassionato della bellezza e preso da un luogo nel quale essa sovrabbonda e si coglie ad ogni passo e in ogni stagione.

Venezia, città calma, è l’anti nevrosi, il luogo paradisiaco, ciò che allontana gli incubi. Acqua e tempo si collegano, secondo l’autore: “Il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo-alias-acqua abbia lasciato sulla terraferma, in qualsiasi parte del globo. In più esiste indubbiamente una corrispondenza – se non un nesso esplicito – tra la natura rettangolare delle forme di quel pizzo –ossia degli edifici veneziani –e l’anarchia dell’acqua, che disdegna la nozione di forma. È come se lo spazio, consapevole – qui più che in qualsiasi altro luogo – della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza” (p. 41).

Venezia tocca l’acqua e così abbellisce il futuro, “migliora l’aspetto del tempo” (p. 108).

Venezia è incanto, mutevolezza, è il “grande amore dell’occhio” (p. 89), con una bellezza terapeutica, che difende e protegge dal male, dà sollievo, tranquillizza.

L’arte, che è bellezza, diviene salvazione, rimedio, incanto.

E Venezia è scrigno d’arte e di luce, la luce amata da molti pittori.

La mattina questa luce si affaccia ai vetri della tua finestra, ti schiude l’occhio come fosse una conchiglia, ti chiama all’aperto e si mette a correre davanti a te strimpellando con i suoi lunghi raggi – come un ragazzino scatenato che batte il bastone contro la cancellata di un giardino o di un parco – su arcate, portici, comignoli di mattoni rossi, santi e leoni” (p. 65).

Un’esperienza finale, un giro notturno in gondola, conduce infine l’autore in piazza san Marco nel momento in cui la nebbia sale dalle acque e inghiotte rapidamente il salotto cittadino. Un ricordo di Wystan Auden si delinea sfumato. Poi rimane solo la città della bellezza, nel suo “eterno presente” (p. 108), nella sua pura essenza.

UN ULTIMO PARTICOLARE: IL TITOLO

Lo strano titolo del libro deriva da un episodio narrato dall’autore.

Durante uno dei suoi soggiorni veneziani ebbe l’occasione di far visita, insieme a un’amica, all’anziana vedova di Ezra Pound, la quale non fece, durante il loro incontro, che difendere, in blocco e con ampie argomentazioni, l’operato e le idee del marito.

Una volta usciti all’aperto i due ospiti si ritrovarono dopo pochi passi sulla Fondamenta degli Incurabili, un nome che ben si adattava alle caratteristiche della signora, incapace di muovere una critica agli errori antisemiti del consorte.

Recensione apparsa su lankelot.eu nell’ottobre 2006

Edizione esaminata e brevi note

Josif Aleksandrovich Brodskij (San Pietroburgo 1940 – New York 1996), scrittore e poeta russo, esiliato nel 1972, ebbe il premio Nobel nel 1987.

Sue opere: “Poesie” (1986); “Fuga da Bisanzio” (1987); “Il canto del pendolo” (1987); “Dall’esilio” (1988); “Marmi” (1995); “Poesie italiane” (1996); “Dolore e ragione” (1998).

Fondamenta degli incurabili” è stato scritto da Brodskij su invito del Consorzio Venezia Nuova, che lo ha pubblicato nel dicembre 1989 in edizione fuori commercio. La presente edizione, la prima pubblica, è stata poi arricchita dall’autore.

Josif Brodskij, “Fondamenta degli Incurabili”, Adelphi, Milano 1991.

Traduzione di Gilberto Forti.

Approfondimento: Italia Libri / Antenati.

A Daniele, veneziano autentico