Le misteriose alchimie della vita danno infiniti volti e sfumature all’amicizia, dono prezioso quanto necessario agli esseri umani. Imparentata con l’amore pur non coltivandone l’erotismo, sentimento che ci rende migliori, l’amicizia illumina l’esistenza e conferisce un senso nuovo al nostro essere nel mondo.
In questo sintetico libretto, Tahar Ben Jelloun ripercorre, in un itinerario della memoria, i suoi rapporti amicali fin dall’infanzia e dall’adolescenza in Marocco, dove la cultura locale tende a dare maggiore importanza ai legami famigliari e al clan piuttosto che ai rapporti con gli amici.
Lontano dal voler proporre un testo definitivo – l’Autore stesso ammette che Cicerone nel “De amicitia” e Montaigne nel capitolo XXVIII degli “Essais” hanno già pronunciato parole basilari – Jelloun delinea una galleria di ritratti a carboncino, dove con poche brevi linee presenta i suoi amici, quelli vicini e quelli lontani, i passati e gli attuali, i loro ruoli diversi, le loro caratteristiche e l’importanza che hanno – o hanno avuto – per lui.
Ciascuno incarna una sfumatura diversa del sentimento in una casistica che potrebbe essere infinita, poiché varia per ognuno di noi. Esperienze differenti hanno insegnato all’Autore come comportarsi: a non mentire, ad ascoltare, a non sfregiare l’amicizia: “Nell’amicizia non bisogna che sorga mai lo spettro della guerra, e neppure quello della rivalità o del tradimento. Quando un’amicizia è sfregiata, non c’è niente che possa ricostituirla” (p. 31).
Jelloun rivela un concetto ampio, a tutto tondo, dell’amicizia: svelando poche caratteristiche essenziali dei personaggi, alludendo più che narrando le loro storie. Non desidera, infatti, organizzare una trama: questo è un viaggio nel tempo e nella memoria, che tocca la biografia dello scrittore, il suo impegno politico, gli studi, le origini, la formazione letteraria. Da questo punto di vista Jelloun non esita ad evidenziare le meschinità e lo squallore degli ambienti letterari: gelosie, rivalità, narcisismo spesso regnano sovrani; e anche dalle esperienze negative si può imparare a non dare mai per scontata la reciprocità dell’altro. Sulla falsariga di Cicerone, si muove Jelloun. Tesaurizzando certe affermazioni dell’illustre classico ritiene che gli amici non vadano usati a scopo clientelare specie in campo letterario e considera la politica un possibile fattore di rottura.
Quella che emerge è una sorta di brevissima biografia rispecchiata nei volti delle persone che gli sono care, è la formazione dello scrittore che a un certo momento in Marocco, assediato dalla famiglia e solo, si rifugia in sé stesso.
“Le parole presero il posto dell’amico che speravo. […] Con le parole vivevo in perfetta armonia. Mi tenevano compagnia,occupavano la mia immaginazione” (p. 27).
Dall’amicizia non sono escluse le donne: “Rispettare una donna vuol dire poter pensare all’amicizia con lei; ciò che non esclude il gioco della seduzione e addirittura, in certi casi, il desiderio e l’amore” (p. 28).
E non sono escluse le coppie, i cui componenti l’Autore ama incontrare sia insieme sia separatamente.
Appena accennato è invece il tema dell’amicizia tra marito e moglie, anzi Jelloun quasi esclude che ciò possa realizzarsi. È un argomento interessante che non viene sviluppato. L’amico è invece colui che si può scomodare in caso di necessità. È una figura sincera: “Considero che un amico non possa mentire, far finta, e che invece parli con tutta la sincerità e la franchezza che l’amicizia vera pretende. Questo secondo me si deve esigere da un amico: che dica quello che pensa senza, ovviamente, ferire” (p. 34).
Per uno scrittore è fondamentale avere una ristretta cerchia di amici fidati cui far leggere i propri manoscritti per averne un parere e una critica sinceri e anche severi se necessario. Tra questi Jelloun annovera anche i suoi editori, scrittori a loro volta e proprio per questo maggiormente in grado di capirlo.
L’Autore non nega la difficoltà di avere amici tra gli scrittori a causa della rivalità: le pochissime eccezioni sono dovute ad affinità di temperamento, a complicità che hanno travalicato la letteratura. Nella sua panoramica a trecentosessanta gradi Jelloun rivela un concetto ampio, allargato, dell’amicizia; vi sono: gli amici “intermittenti”, quelli “di viaggio”, quelli che periodicamente scompaiono per lunghi periodi, non per oblio o rifiuto, ma perché è nella loro natura attraversare fasi di “deserto” e poi all’improvviso riappaiono.
Di particolare interesse le pagine dedicate ai librai: “Il libraio è l’amico del libro; non di tutti i libri ma di quelli che considera tali da essere trasmessi al lettore”.
Delinea una figura di libraio che, almeno in Italia, è diventata rara, travolta dalla proliferazione degli ipermercati del libro, dove commesse spesso impreparate smerciano prodotti-libro, merce destinata a rapido macero o a coprirsi di polvere su qualche scaffale. O peggio ancora ormai il libro è pura merce acquistabile nei centri commerciali insieme ai generi alimentari e ai detersivi. Quale differenza dalla libreria-sacrario e dal libraio-amico delineato da Jelloun: “Non essendo né l’amico discontinuo, né l’amico scomparso, il libraio è l’amico che non tradisce mai, perché il legame è materializzato in un oggetto. Può darsi che non ami un libro in particolare, ma, per vocazione, ama il libro in generale. Se quell’amicizia non è personale, essa è legata a un’intimità originale: quella della solitudine della scrittura” (p. 77).
Infine vi sono amicizie con autori, anche scomparsi, che continuano a parlare attraverso le loro opere, la relazione è a senso unico in questo caso: “Una biblioteca è una camera piena di amici. Sono amici che mi stanno intorno e che mi offrono ospitalità. Una casa senza biblioteca è una dimora senz’anima, senza spirito, senza amicizia.
I libri – forse non tutti i libri – quando sono sistemati negli scaffali, sembra che vi osservino, o che vi chiamino. Aspettano. Quando una mano gli si avvicina, si sporgono verso di essa. […]
Fare dono di una parte della propria intimità – ricreata, reinventata con le parole e con le immagini – della quale saranno degli sconosciuti a impadronirsi ricoprendola di passione, di amore e di mistero. Chi sta all’origine di un atto simile diventa l’amico eccezionale, lontano fisicamente, o nel tempo, ma così vicino per quello che ha lasciato in dono” (pp. 78-79).
recensione apparsa su lankelot.eu nell’ottobre 2006
Edizione esaminata e brevi note
Tahar Ben Jelloun (Fes, Marocco 1944), scrittore marocchino. Ha studiato filosofia a Rabat. Inizia la sua attività letteraria con la rivista “Souffles”, che raccoglieva giovani intellettuali ribelli e francofoni. Nel 1971 si trasferisce a Parigi per un dottorato in psichiatria sociale. Collabora a La Repubblica a Le Monde.
Opere: La notte sacra (premio Goncourt 1987); Creatura di sabbia (1987); L’estrema solitudine (1988); Giorno di silenzio a Tangeri (1989); Le pareti della solitudine (1990); Dalle ceneri (1991); Lo scrivano (1992); A occhi bassi (1993); Corrotto (1994); Poesie 1966-1995.
Approfondimento in rete: www.taharbenjelloun.org
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