“L’Abbazia di Northanger” è uno dei primi romanzi di Jane Austen – la cronologia delle sue opere è assai confusa, perché gran parte di essi venne riscritta molto tempo dopo la prima stesura – e venne realizzato tra il 1797 e il 1798. Uscì postumo nel 1818 insieme a “Persuasione”.
La vicenda narrata è molto semplice: Catherine Morland, la protagonista, è una ragazza di provincia, quarta figlia di una numerosa famiglia, che ha l’occasione di recarsi a Bath, cittadina termale, insieme ai signori Allen, ricchi proprietari terrieri del suo villaggio. Qui realizza nuove conoscenze ed amicizie e s’innamora del giovane e benestante pastore Henry Tilney, la cui famiglia è composta dal padre, un autoritario e talvolta burbero generale, dalla sorella Eleanor e dal fratello maggiore capitano Frederick. Ella viene invitata presso la loro residenza, Northanger Abbey, un’antica dimora nella campagna inglese, un luogo che accende l’immaginazione della ragazza, influenzata dalla lettura dei romanzi gotici. Dopo qualche disavventura, il lieto fine è assicurato.
L’Abbazia di Northanger non è un capolavoro, ma è un romanzo gradevole, arguto, attento nella descrizione di un piccolo microcosmo sociale, costituito da buone maniere, convenienze, chiacchiere da salotto.
All’apparenza tutti sono gentili ed educati, pur celando interessi, piccole gelosie e meschinità: le signore discettano su abiti e merletti, figli e matrimoni; i signori s’interessano di politica, di cavalli e di cani, di caccia e di finanza.
La vita scorre tra visite di cortesia per un the, balli, spese, passeggiate in campagna. Si tratta di quell’universo circoscritto nel quale la Austen è sempre vissuta e che riesce a ricreare nei suoi romanzi con grande abilità e con spiccatissimo senso dell’ironia. I grandi eventi storici non giungono in questo mondo campestre, provinciale, basato su un forte senso della famiglia, dei doveri sociali, dei legami domestici.
Grazie ad un uso sapiente e vivace del dialogo ogni evento fluisce con tranquillità, in fondo accade ben poco, ma quel poco viene presentato con abilità e con profondità. Lo sguardo dell’Autrice è penetrante e lucido e sa vedere anche i difetti dei personaggi e di tutto un modo di vivere, che ella comunque non mette in discussione e non rivoluziona.
La protagonista, Catherine Morland, è un’anti-eroina fin dall’inizio. Quarta figlia della numerosa famiglia di un pastore, da bambina non è particolarmente bella e brillante, è distratta nello studio tanto da apparire talvolta stupida.
“Era magra e sgraziata, aveva la pelle scialba, capelli neri e piatti, lineamenti grossi: questo il fisico; non meno inadatto all’eroismo si rivelava lo spirito” (p. 3).
Ama i giochi maschili. A dieci anni non è cattiva, ma è rumorosa e scontrosa, odia disciplina e pulizia. A quindici anni è finalmente migliorata sia nell’aspetto che nel comportamento, ma continua a preferire il cricket, l’equitazione, il gioco della palla e le scorribande nei campi ai libri di studio. Ama invece molto i romanzi e si allena a diventare un’eroina “leggendo tutti i romanzi che le eroine devono conoscere per arricchire la loro mente di quelle citazioni tanto utili e consolanti nelle vicissitudini della loro vita avventurosa” (p. 5), dice ironicamente l’Autrice.
Visto che a diciassette anni Catherine non ha ancora trovato un fidanzato, anche perché ben pochi partiti offre il suo villaggio, viene invitata a Bath dai signori Allen ed ha così inizio la sua avventura.
Jane Austen è abilissima nel tratteggiare i vari personaggi.
Mrs Allen ad esempio è una donna molto limitata e noiosa, frivola e ripetitiva.
“Mrs Allen apparteneva a quella numerosa schiera di donne, la cui compagnia non può suscitare altri sentimenti se non la sorpresa di constatare come vi siano stati uomini capaci di amarle sia pure quel tanto che occorre per il matrimonio” (pp. 8-9).
A Bath vi saranno i determinanti incontri – tra balli, passeggiate, teatro e shopping – fra i gruppi familiari: oltre agli Allen, compariranno i Thorpe, madre vedova e figli; James, uno dei fratelli di Catherine, e i Tilney.
Il soggiorno presso la cittadina termale è l’occasione ideale per stringere conoscenze, far sbocciare amori, creare e disfare a sorpresa fidanzamenti: il microcosmo non è mai fisso, ha i suoi movimenti interni, i suoi pettegolezzi, i piccoli segnali di simpatia, lo scambio di lettere, le conversazioni brillanti o frivole. Le ragazze godono di una certa libertà e, sempre nel rispetto delle buone maniere, possono dedicarsi a gite in campagna con i giovanotti.
L’ironia dell’Autrice non manca di lanciare qualche strale all’ipocrisia che spesso avvolge questo mondo e agli interessi molto concreti cui in genere si bada prima di acconsentire a un matrimonio.
A Bath Catherine s’innamora subito del pastore Henry Tilney, un bel giovane, brillante conversatore, colto, ironico e gentile, diviene amica di Eleanor, sua sorella e in breve avrà modo di entrare nella loro vita familiare.
Si scontrerà con la fatuità di Isabel Thorpe, una ragazza che si rivelerà interessata molto più al denaro che all’amore.
L’elemento pecuniario non viene mai sottovalutato dalla Austen – si parla apertamente di doti, rendite, contabilità – poiché se non dà la felicità, certamente serve a tenere unita quella società che per lei è l’unica possibile e narrabile.
Invitata a Northanger Abbey, una residenza antica molto ampia che ha conservato, nonostante alcune ristrutturazioni, il fascino dell’antico, Catherine scoprirà quanto la sua fervida fantasia sia stata influenzata dalla lettura dei romanzi gotici più volte citati dall’Autrice. E capirà le sue esagerazioni.
Jane Austen inserisce nella sua opera una brillante satira proprio verso quel romanzo gotico all’epoca in gran voga – le opere della Radcliffe, in particolare Udolpho, The Monk di Lewis, Walpole – e dimostra come essi possano infervorare a tal punto la fantasia delle giovinette da condurle a scambiare realtà banalissime per misteri tenebrosi: “Per appassionanti che fossero i romanzi di Mrs Radcliffe e piacevoli quelli delle sue imitatrici, forse non era attraverso quelle letture che si poteva giudicare la natura umana, quale almeno si manifestava nelle contee dell’Inghilterra centrale” (p. 160).
Gli spiriti inesperti e sensibili come Catherine, formatisi più sui libri che sulla concreta realtà, si fanno condizionare dai romanzi, altri personaggi reagiscono diversamente: l’equilibrata e colta Eleanor preferisce i libri di storia, la vuota Isabel non se ne fa suggestionare, rimanendo sempre molto concreta, il rozzo John Thorpe li detesta e il saggio Henry Tilney li demolisce con l’ironia.
Alla fine il buon senso, la ragione prevalgono e per Catherine giunge il lieto fine, non importa se “l’affetto di Henry era nato soltanto da un sentimento di gratitudine, o, in altre parole, che la tenerezza di Catherine per lui era stata la sola causa che lo aveva indotto a pensare seriamente a lei. È un’ipotesi, bisogna riconoscerlo, del tutto nuova in un romanzo, che intacca spaventosamente la dignità della nostra eroina: ma se è altrettanto nuova nella vita comune, ci si dovrà almeno far credito di una bizzarra immaginazione” (p. 199).
Catherine ha acquisito esperienza e vivrà un quotidiano meno letterario ,ma non privo di una sua grazia.
Articolo apparso su lankelot.eu nell’ottobre 2006
Edizione esaminata e brevi note
Jane Austen (Steventon, Hampshire 1775- Winchester 1817), scrittrice inglese.
Jane Austen, L’abbazia di Northanger, Milano, Garzanti 2001. Introduzione di Attilio Bertolucci. Prefazione di Gianna Lonza. Traduzione di Teresa Pintacuda.
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