Una ghirlanda di luoghi circoscritti, ben definiti nella loro storia e nelle loro caratteristiche può racchiudere in sè l’universo intero ed aprire così a considerazioni sugli uomini, sul loro esistere, sulla storia e sulle storie di ognuno, sulla cultura e sulla natura.
Poesia della realtà, di gesti abituali e ripetitivi come quello delle lavandaie che un tempo sciacquavano i panni nel torrente Patok a Trieste; luoghi legati a stagioni e rimasti vivi nella mente soltanto nel loro aspetto in quel preciso periodo dell’anno, in un susseguirsi d’immagini in cui il tempo si confonde e si liquefa dolcemente.
Microcosmi, luoghi noti fin nei minimi particolari, visti ed esplorati infinite volte, conosciuti nelle loro vicende e popolati dai personaggi più vari, uomini famosi, glorie locali o piccoli eroi autoctoni ignoti ai più; microcosmi abitati anche da animali, piante, sfumature di luce e di colore, paesaggi gelati di boschi e montagne invernali o luminose lagune dove l’acqua assume riflessi cangianti e il tempo si dilata nella calda uniformità estiva.
Il viaggio di Magris prende avvio da Trieste, dal Caffè San Marco, luogo d’elezione per la scrittura, e a Trieste si conclude come in un cerchio, al Giardino Pubblico e poi nella vicina chiesa del Sacro Cuore, con un racconto onirico, che pare una prefigurazione di morte e dissoluzione.
Trieste città-frontiera, crogiolo di razze, groviglio di fili della Storia, bellezza e cultura, ma anche insieme dei piccoli grandi problemi della vita cittadina.
Magris passa dalle considerazioni su Saba all’eccessiva proliferazione dei piccioni con grande facilità.
Trieste e i suoi letterati, i cui busti sono esposti al Giardino Pubblico: Joyce, Slataper, Svevo, Saba.
«Triestinità» nata con Slataper, “vitalità verde liberata, con asprezza e goffaggine adolescente, dal grigio della civiltà” (p.246).
“La generazione slataperiana crea la triestinità denunciando i busti rassicuranti, il museo del sapere tradizionale e sistematico che irrigidisce la vita ed elude il dramma dell’esistenza, inserendo e neutralizzando ogni fenomeno nel catalogo e nella classificazione”.(p.246).
Come si era già visto in “Danubio”, Magris prende spesso avvio da piccoli particolari per elaborare considerazioni generali, ripercorre la storia dei luoghi, riflette su personaggi famosi, in genere letterati; descrive incontri con figure umane particolari, spesso frequentatori abituali dei luoghi o anziani con una loro vicenda da raccontare, dando così pari dignità e luce agli uni e agli altri.
La storia è fatta di tanti piccoli fatti, di eventi grandi e minimi che spesso s’ingarbugliano tra loro.
L’io che percorre tutti questi luoghi si dimostra un saggio e dolente conoscitore della vita e degli uomini, sensibile ascoltatore delle vicende più varie – divertenti, liete, o tragiche –e delle voci della natura, degli animali, delle piante, delle pietre, delle onde, della luce e delle stelle.
Il primo microcosmo, il Caffè San Marco, è quasi una summa: sembra racchiudere anche gli altri.
“Il Caffè è un brusio di voci..”(p.15), “un luogo della scrittura…” (p.17);
“un’accademia platonica” (p.18); “Seduti al Caffè, si è in viaggio..”(p.19); “I caffè sono anche una specie di ospizio per gli indigenti del cuore” (p.20); “il San Marco è un lifting dell’esistenza” (p.21).
Da questo luogo così popoloso e variegato, ricco di storie e personaggi si può poi partire verso altri luoghi circoscritti, piccoli universi amati e vissuti, carichi di memorie anche personali, familiari, ingentiliti dal volto femminile amato, eternamente presente come uno spirito rassicurante e protettivo.
Ecco allora la val Cellina, terra degli antenati del narratore, originari di Malnisio. Vi si ritorna per la fusina, la festa per le prime pannocchie che vengono abbrustolite alle falde del monte Sarodinis, nell’ultino sabato di agosto.
Memorie di scrittori estranei alla società letteraria, eppur valenti, ingegni rimasti nel nascondimento o a i margini della grande popolarità, come molti altri, tra le montagne o tra le lagune.
Alla società letteraria “non interessa tanto il valore di una pagina, quanto la sua attitudine a diventare oggetto di consumo intellettuale, formula facilmente orecchiabile.” (p.44)
La val Cellina è anche la valle di Mauro Corona, le cui mani “conoscono la magia di creare la vita con le cose” (p.55).
“Il suo corpo è di fil di ferro e la sua intelligenza fulminea ha la semplicità della colomba evangelica”.(p.55)
Dalle montagne alle “Lagune”: ecco la laguna di Grado con le sue isole. È il regno del poeta Biagio Marin, qui evocato con pregi e difetti, ma sempre con grande rispetto per la poesia, anche nelle sue voci più soffuse.
Il viaggiare per mare è qui tranquillo e pigro, estivo.
“La laguna è anche quiete, rallentamento, inerzia, pigro e disteso abbandono, silenzio in cui a poco a poco s’imparano a distinguere minime sfumature di rumore, ore che passano senza scopo e senza meta come le nuvole; perciò è vita, non stritolata dalla morsa di dover fare, di aver già fatto e già vissuto – vita a piedi nudi, che sentono volentieri il caldo della pietra che scotta e l’umido dell’alga che marcisce al sole.” (p.60)
Un antenato materno viene ricordato in queste terre, mentre le immagini di Medea e del viaggio degli Argonauti –ricorrenti in tutta l’opera – mirano a eternare l’effimera dimensione del presente.
Dal mare, di nuovo verso il bosco, il monte Nevoso in Slovenia è il luogo del rito familiare delle vacanze estive. Le storie cambiano, la foresta è il luogo mitico, eterno e mortale nello stesso tempo, luogo di magiche luci.
“Nella radura di Pomocnjaki un mattino il sole appena sorto aveva creato per pochi secondi, con il vapore che si alzava dal prato, una perfetta cattedrale di luce, una forma che saliva assottigliandosi sino a culminare in una cuspide; la porta, un grande portale gotico, era un pulviscolo luminoso, una cortina splendente e spessa, che celava il bosco retrostante.” (p.101)
Quasi a segnare un passaggio intermedio tra monti e mare compaiono le colline torinesi, ricche di memorie storiche del vecchio Piemonte, anch’esso terra di confine. A Torino e poi a Trieste si è sviluppata la germanistica, le cui vicende vengono in parte ripercorse. Quello dell’autore è un viaggiare colto ed attento, molto documentato e soprattutto capace di trarre poesia dai molteplici aspetti del reale.
Due ultimi microcosmi concludono il libro, prima dell’approdo finale alla nativa trieste: Assirtidi e Antholz.
Assirtidi è l’altro nome delle isole di Cherso e Lussino, nel Quarnaro. Il nome deriva da quello del fratello di Medea, attirato in un tranello dalla maga, fatto a pezzi e gettato in mare per amore di Giasone.
Mito e realtà s’alternano nel tempo dilatato dell’estate.
Il mare, grande emblema della persuasione nel’accezione di Michelstaedter, domina il paesaggio.
“La leggenda che fa sfociare il Danubio nell’Adriatico dice il desiderio di sciogliere le scorie di paure, ossessioni, pudori, deliri di difesa – di cui è così greve il continente attraversato dal fiume – nella grande persuasione marina, abbandono disteso, puro presente della vita che basta a se stessa e non si consuma nella corsa verso mete da raggiungere, nell’ansia di fare, ossia di aver già fatto e già vissuto, ma è felicità senza meta e senza assillo, eternità e autosufficienza dell’attimo.” (p.168)
L’isola di Goli Otok ricorda però anche una triste vicenda storica: quella degli operai italiani, convinti stalinisti, che scelsero di trasferirsi in Jugoslavia alla fine della guerra per contribuire ad edificare il socialismo reale con le loro competenze cantieristiche e poi, dopo la rottura tra Stalin e Tito, finirono per venire deportati su quest’isola trasformata in lager.
Antholz è invece Anterselva di Sotto, in Sud Tirolo, luogo di brevi vacanze invernali, che si ripetono per anni, con i loro incontri e i passatempi consueti.
Ed è il Tirolo a venir descritto, terra di confine ancora una volta, terra tedesca, terra che divide e unisce tutti i confini. Le stagioni si susseguono, il tempo scorre, storia privata, letteratura, storia locale e nazionale procedono.
“Sotto la neve, settimane e anni si condensano in un unico presente, che li custodisce tutti e dal quale essi affiorano come oggetti restituiti dal disgelo. Il tempo si cristallizza in un nevaio perenne, gli strati di neve caduta in anni diversi si toccano e si sovrapppngono, uno accanto all’altro.” (pp.195-96)
Rispetto a “Danubio”, che è narrazione continua di ampi spazi, qui Magris si muove in tanti piccoli mondi, sempre però con la medesima eleganza e raffinatezza e con una grande cultura e volontà di scoprire popoli e paesi. Un autentico leit-motiv è costituito dal tema del confine, della frontiera, che qui, come in “Danubio” riaffiora continuamente. Così Grado è terra di confine, ma anche Trieste, il Tirolo, le isole, le montagne.
“La linea che divide il mare dalla laguna è visibile, precaria e ineludibile, come tutti i confini, con la loro necessità e la loro vanità, poco importa se si tratta di confini fra le acque, i colori, i paesi o i dieletti.”(p.77)
Il confine è luogo di passaggio, d’incrocio, spesso luogo letale, un “idolo che chiede sacrifici di sangue. Necessità, febbre, maledizione del confine. Senza di esso non c’è identità né forma, non c’è esistenza: esso la crea e la munisce di inevitabili artigli, come il falco che per esistere e amare il suo nido deve piombare sul merlo.” (p.108)
Il confine è legato all’esistenza, pare riflettere la precarietà stessa del vivere, il suo mutare, il suo farsi e disfarsi in un ciclo eterno.
Legato al confine vi è il tema del viaggio, che per definizione è attraversamento di confini, grandi o piccoli: il Danubio percorre molte terre, visita numerosi popoli; l’uomo, nei suoi spostamenti, incontra realtà diverse e altri uomini.
“Ogni viaggio è soprattutto un ritorno” (p.37).
“Viaggiare è anche una perdente guerriglia contro l’oblio, un cammino di retroguardia; fermarsi a osservare la figura di un tronco dissolto ma non ancora del tutto cancellato, il profilo di una duna che si disfa, le tracce dell’abitare in una vecchia casa”. (p.58)
Anche la scrittura è viaggio, viaggio metaforico che si compie dai tavolini del Caffè San Marco: “Scrivere significa sapere di non essere nella Terra Promessa e di non potervi arrivare mai, ma continuare tenacemente il cammino nella sua direzione, attraverso il deserto. Seduti al caffè, si è in viaggio;…” (p.19)
Nel viaggio si prende e si lascia continuamente, si approda a nuove terre e se ne incontrano altre, ma soprattutto ogni viaggio implica l’idea del nostos, del ritorno, fino all’ultimo ,al definitivo, simile a quello del grande Danubio che si effonde nella vastità assoluta del mare.
Articolo apparso su lankelot.eu nel luglio 2006
Edizione esaminata e brevi note
Claudio Magris (Trieste 1939) è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Trieste e collabora al Corriere della Sera. Tra le sue opere: “Il mito asburgico” (1963), “Lontano da dove” (1971), “Itaca e oltre” (1982), “L’anello di Clarisse” (1984), “Illazioni su una sciabola” (1984), “Danubio” (1986), “Dietro le parole” (1988), “Stadelmann” (1988), “Microcosmi” (1997, premio Strega), “Utopia e disincanto” (1999) e “La mostra” (2001).
Claudio Magris, Microcosmi, Milano, Garzanti, Gli Elefanti 2001
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