Un testo accompagna un’esistenza, la segue tra riferimenti biografici, appunti e riflessioni sulle letture compiute, osservazioni sulla realtà circostante e su persone, passioni amorose, spostamenti da un luogo all’altro, problematiche esistenziali.
Tempo della scrittura e tempo della vita coincidono.
Le riflessioni si fanno particolari se chi scrive è un poeta e un romanziere. Un artista. Allora addentrarsi nel suo diario non sarà più soltanto seguirne le vicende biografiche, sulle quali talvolta sarà assai schematico o reticente, ma sarà un addentrarsi nella sua poetica, nella costruzione ed evoluzione di tutto un mondo simbolico che troverà poi compimento nelle opere.
E sarà seguire le sue letture, gli interessi, le osservazioni su altri letterati e pensatori. Sarà osservare l’autore che s’interroga su se stesso, sulla sua opera, sulle sue radici culturali ed umane e si chiarisce, si forma e si rivela poi al pubblico. “È bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla.
Se ti riuscisse di scrivere senza una cancellatura, senza un ritorno, senza un ritocco – ci prenderesti ancora gusto? Il bello è forbirti e prepararti in tutta calma a essere un cristallo”. (4 maggio 1949)
Il vissuto esistenziale ha un suo ruolo, ma non sempre preponderante, talvolta il lavoro, il farsi artistico o lo studio prevalgono e il testo è fitto di riflessioni sul mito, sul simbolo, sull’arte antica e moderna, sui libri affrontati e meditati.
Quando invece il dolore di vivere si fa troppo forte e lacerante, il vissuto irrompe e il testo può diventare anche lamento, grido, risentimento, rabbia e infine annientamento. Dissoluzione.
“Ciò che è stato, sarà”. Il ripetersi, come nel mito, di esperienze negative per troppo tempo accresce il disagio esistenziale, accresce la solitudine da sempre vissuta fino a non lasciare più margine alla speranza. “Ciò che è stato, sarà”. Significa impossibilità di risollevarsi, annientamento soprattutto quando, anche nell’arte, si ritiene di aver dato tutto. Senza limite, senza misura.
Ancora nel 1946 Pavese scriveva sotto il titolo “Tentazione dello scrittore”: “Aver scritto qualcosa che ti lascia come un fucile sparato, ancora scosso e riarso, vuotato di tutto te stesso, dove non solo hai scaricato tutto quello che sai di te stesso, ma quello che sospetti e supponi, e i sussulti, i fantasmi, l’inconscio – averlo fatto con lunga fatica e tensione, con cautela di giorni e tremori e repentine scoperte e fallimenti e irrigidirsi di tutta la vita su quel punto – accorgersi che tutto questo è come nulla se un segno umano, una parola, una presenza non lo accoglie, lo scalda – e morir di freddo – parlare al deserto – essere solo notte e giorno come un morto”. (27 giugno 1946)
Quattro anni dopo, nel 1950, Pavese aveva scritto i suoi romanzi migliori, artisticamente si era realizzato, aveva successo, ma lo spettro del suicidio – da sempre presente – ritornava prepotentemente.
“Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. (25 marzo 1950)
Ultimi sussulti di poesia scuotono l’autore prima della decisione finale. Tentativi, fino alla fine, per uscire dalla solitudine incombente.
Eppure, con lucidità assoluta, emerge la consapevolezza della propria opera compiuta con amore, con passione e con immenso e instancabile impegno.
“La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”. (16 agosto 1950)
Com’è sua abitudine traccia un consuntivo dell’anno “non ancor finito” e “che non finirò”.
“Nel mio mestiere dunque sono re” – scrive tra l’altro riguardando al suo lavoro. Seguono pochi pensieri sparsi. “Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi? […] Non parole. Un gesto. Non scriverò più”. (18 agosto 1950)
Il congedo dalla vita è congedo dalla scrittura di chi a questa scrittura aveva dedicato il meglio di sé, fino ad instaurarvi un rapporto drammatico e tragico.
Il “Mestiere di vivere” è un testo complesso, difficile da affrontare e terribilmente tragico, poiché impegna intellettualmente e lascia una traccia di disagio esistenziale profondo, mettendo a contatto con la sofferenza annientante del suo autore.
È un testo che ha in sé la luce della creazione artistica e, nello stesso tempo, la tenebra esistenziale, il dramma, l’annullarsi di ogni speranza. È un testo che può fare male, ma che è anche intessuto di pensieri profondi, di studio, di passione per il proprio lavoro e per la propria terra, di poesia e scavo interiore volto alla ricerca e al continuo perfezionamento della propria poetica.
Il diario pavesiano è una sorta di filo conduttore che accompagna quasi l’intera vita e attività artistica dell’autore.
Il testo inizia nell’ottobre 1935, quando Pavese è ancora al confino per motivi politici a Brancaleone calabro e si conclude nell’agosto 1950 poco prima del suicidio. Inizialmente è l’ideale proseguimento di “Il mestiere di poeta”, il saggio introduttivo scritto da Pavese quale introduzione a “Lavorare stanca”, la sua raccolta di poesie che sta per essere pubblicata (ma già Pavese aveva scritto dei frammenti diaristici, per questi aspetti l’edizione del “Mestiere” a cura di Guglielminetti è ricca di chiarimenti).
Fino al 15 marzo 1936 il testo è costituito da riflessioni sulla propria poetica e sulle sue origini, vi è un intenso lavorio spirituale e intellettuale su se stesso, vi sono idee e progetti. Soprattutto Pavese sente esaurirsi la poesia e mentre va chiarendo a se stesso modi e temi della propria scrittura, capisce di dover indirizzarsi verso la prosa.
E sarà allora un nuovo inizio, la scrittura pavesiana è costituita infatti dalla gioia e dalla scoperta di continui inizi. Scriverà al 23 novembre 1937:
“L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità – si vorrebbe morire”.
A questo livello Pavese sente ancora forte il desiderio di ricominciare, ha molto da dire ancora: “Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha l’altra riva, e arriverò”. (16 febbraio 1936)
La nuova opera sorgerà “alla fine del dolore”, ma l’autore è certo del suo arrivo. Il diario ha un mutamento di tono il 10 aprile 1936 con l’esame di coscienza, dove emerge in pieno l’io creatore sofferente per il tradimento dell’amata. Il tema del suicidio, la solitudine, il disagio esistenziale che serpeggiano e affiorano periodicamente nell’intero testo, iniziano a comparire.
Lungo le pagine del “Mestiere” si articoleranno osservazioni sui libri letti e sulla letteratura, riflessioni esistenziali che, partendo da situazioni personali, spesso approderanno a considerazioni generali sull’uomo, pagine di fastidiosa misoginia (che a volte sembra più una rabbiosa reazione all’abbandono, al non aver più ciò che altri ormai possiede) o di commiserazione e autoflagellazione, pagine di elaborazione della propria poetica, che si concretizzerà nelle opere.
Caratteristica di Pavese la comparsa di un «tu» assai perentorio che si rivolge all’io narrante (e sofferente).
“Bisogna confessare che hai pensato e scritto molte banalità nel diarietto di questi mesi”.(25 febbraio 1938)
Il 1938 è l’anno in cui maggiormente Pavese si lascia andare a una scrittura che Guglielminetti definisce «livida», ma nel frattempo l’autore sta indirizzandosi verso la prosa, va riflettendo e sperimentando e ponendo le basi degli sviluppi successivi.
A fine ’38 parlerà di uno “stile del Novecento” quale “perenne farsi di vita interiore” ed ancora all’8 novembre: “Che noi conosciamo uno stile, vuol dire che ci siamo resa nota una parte del nostro mistero. E che ci siamo vietato di scrivere d’or innanzi in questo stile. Verrà il giorno in cui avremo portato alla luce tutto il n/mistero e allora non sapremo più scrivere, cioè inventare lo stile”.
La letteratura si conferma come “una difesa contro le offese della vita”(10 novembre 1938) e proprio l’aver ancora molto da dire, da creare contribuisce a far uscire Pavese dalla crisi esistenziale.
L’idea dell’infanzia come età fondamentale inizia a farsi strada.
“Ogni cosa che ci è accaduta è una ricchezza inesauribile: ogni ritorno a lei l’accresce e l’allarga, la dota di rapporti e l’approfondisce. L’infanzia non è soltanto l’infanzia vissuta, ma l’idea che ce ne facemmo nella giovinezza, nella maturità, ecc. Per questo appare l’epoca più importante: perché la più arricchita dai ripensamenti successivi” (10 dicembre 1938)
Altra caratteristica pavesiana è l’abitudine, tra un anno e l’altro, di delineare un breve consuntivo del periodo, solo episodicamente questa traccia manca. Ad essa Pavese sarà fedele addirittura nell’anno della morte.
All’inizio del 1939 afferma: “Si comincia ora”. Pavese torna alla creazione e, in questi anni, preponderanti saranno le letture e la poetica, alternate anche a osservazioni ispirate dalle tragiche vicende storiche dell’epoca.
Dalla vita scaturirà, dopo opportuna trasfigurazione ed elaborazione, l’arte, in una continua ricerca tematica e stilistica.
Nel 1940 scriverà “Sono vissuto per creare” (1 gennaio). In quest’anno si affaccerà un’altra figura femminile: Fernanda Pivano, destinataria anche di importanti lettere. Il ripresentarsi di un rifiuto amoroso scatenerà un ulteriore ritirarsi di Pavese nella solitudine e una conferma del ripetersi ciclico degli eventi, come nel mito.
In questi anni determinanti Pavese elabora le sue idee sul mito, sul simbolo e sull’infanzia. Pavese osserva di potersi dedicare poeticamente a qualcosa soltanto riconducendolo “agli stampi della sua infanzia” (tra questi vigna e collina). Vi sarebbe una “conoscenza iniziale” privilegiata, che continua a farsi sentire nei successivi processi di percezione del reale.
L’arte moderna per Pavese è un “ritorno all’infanzia”
“Suo motivo perenne è la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire, nella sua forma più pura, soltanto nel ricordo dell’infanzia. […] E in arte si esprime bene soltanto ciò che fu assorbito ingenuamente. Non resta, agli artisti, che rivolgersi e ispirarsi all’epoca in cui non erano ancora artisti, e questa è l’infanzia”. (12 febbraio 1942)
L’arte di Pavese si delinea volta all’irrazionale, vi saranno sue osservazioni critiche verso i neorealisti.
Per Pavese nulla va perduto, le esperienze passate vanno rivisitate e riscoperte con nuove sfaccettature, tutto è già accaduto nell’infanzia, ma tutto va riscoperto con nuovo stupore. Creare sarà uno scavo continuo nell’interiorità e nel ricordo.
Il periodo tra l’armistizio del ’43 e il ’45 vede Pavese a Serralunga di Crea, dove la sorella Maria aveva una casa. Qui ebbe colloqui di carattere religioso con padre Baravalle, come questi ha testimoniato, e il diario conserva tracce evidenti di una crisi di Pavese in questa direzione, anche se non approderà a una fede.
Gli anni del Dopoguerra saranno quelli definitivi e altamente creativi per Pavese, che s’iscriverà al PCI, pur rimanendo in fondo sempre un autore impolitico, anche per il suo carattere schivo e riservato.
Sono anni di grande lavoro, Pavese scrive in pochissimo tempo i suoi romanzi principali, sono anni di spostamenti tra Torino e Roma per l’organizzazione della casa Einaudi, di nuove passioni amorose, di successo e consacrazione letteraria con il premio Strega nel 1950.
Si avverte però un senso di vuoto che avanza. “Temi il tuo vuoto”(23 febbraio 1946). Ma la scrittura ha ancora la capacità di farlo vivere.
“Quando scrivi qualcosa e dai dentro, sei sereno, equilibrato, felice”.(2 marzo 1948)
Rimani l’interrogativo “E poi?” riferito a quando lo scrivere sarà terminato ed anche la prosa avrà esaurito le sue possibilità.
Vita e opere sono intrecciate. Al 30 settembre 1949 nota: “Ti vai prosciugando”.
Nell’ultimo anno spariscono i riferimenti a libri propri e altrui e predominano i temi esistenziali, soprattutto morte e suicidio. Amarezza proviene da critiche rivoltegli in seno al PCI. Una nuova passione finisce e non fa che accentuare il senso di solitudine. Neppure l’arte offre più motivazioni sufficienti per continuare a vivere ed è il congedo dal mondo e dalla scrittura.
Articolo apparso su lankelot.eu nel luglio 2006
Edizione esaminata e brevi note
Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, Cuneo, 1908 – Torino, 1950), romanziere e poeta italiano.
Cesare Pavese, “Il mestiere di vivere”, Einaudi Torino 1990. La prima edizione de “Il mestiere di vivere” venne pubblicata da Einaudi nel 1952 e conteneva tagli laddove il contenuto si riferiva a fatti privati di persone viventi o era ritenuto troppo intimo e scottante. L’attuale edizione è integrale e dotata di saggio introduttivo di M.Guglielminetti, nota al testo a cura di L.Nay e appendice con “I frammenti della mia vita trascorsa”, pensieri cassati e note.
Il manoscritto è stato trovato tra le carte di Pavese dopo la sua morte.
Approfondimento in rete: Cesare Pavese – a cura di Marco Ferrando.
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