Vera Stein, questo è il nome della protagonista di “Lettera da Francoforte“. Dietro il nome di Vera, però, ci sono i ricordi e la vita di Edith Bruck la quale, anche in questo breve romanzo, non può non far riferimento alla sua esperienza di sopravvissuta alla Shoah. Il “motore” che dà vita alla storia è, tutto sommato, abbastanza semplice: Vera cerca di ottenere dal governo tedesco il risarcimento che le spetta per essere stata imprigionata ad Auschwitz, Kaufering, Landsberg, Dachau, Christianstadt, Bergen-Belsen.
Vera vive a Roma, è sposata e lavora come disegnatrice ed illustratrice di libri per bambini. In precedenza aveva già inviato le pratiche per ottenere lo scarno risarcimento previsto ma, dopo due anni di attesa, aveva ottenuto un rifiuto. Ora le tornano tra le mani quei documenti inutili e, sulla spinta della sua agguerrita amica tedesca Ellen, pensa di tentare nuovamente. E riprende così la trafila burocratica che conosce. I documenti necessari sono molti e sembra proprio che l’apparato amministrativo della Fondazione tedesca che si occupa dei procedimenti sia rigido ma anche sterile. Vera è costretta, anche di malavoglia, a tornare con la memoria in luoghi e tempi che vorrebbe solo dimenticare. L’ottusità dei burocrati prevede persino che lei fornisca la “prova documentata della sofferenza subita durante la persecuzione“. Come documentare la sofferenza? Quali sono gli atti utili a dimostrare lo strazio di un anno trascorso nei campi di sterminio? O la morte della propria madre avviata al crematorio appena scesa dal treno che l’aveva portata ad Auschwitz e di un padre morto di fame poco prima della liberazione? Come attestare le botte, il gelo, le selezioni, la denutrizione, la malattia? “La sofferenza ha volti infiniti, esteriori e interiori, documentarla con qualche cicatrice del gelo sulle mie gambe la ridurrebbe a niente“.
Il marito di Vera, dal canto suo, tenta di proteggere come può la sua compagna e, fin da subito, le suggerisce di abbandonare l’impresa. Ma la donna continua, nonostante lo scoraggiamento e i tempi di risposta lunghissimi: la corrispondenza con gli uffici di Francoforte e la richiesta di documenti procede. A Vera viene assegnato un numero. Dopo quel 11152 tatuato sull’avambraccio, la donna si vede ridotta, per la seconda volta e a distanza di tanto tempo, a delle cifre. La sua pratica è la numero 9-27619-1 ed è a questo numero che deve fare costantemente riferimento. Accanto a lei ci sono amici che la supportano e che l’aiutano con il tedesco. Lei non tollera neppure i suoni di quella lingua, ogni espressione un po’ più dura le riporta alla mente esperienze e violenze mai dimenticate.
Passano le stagioni e Vera e suo marito partono per una vacanza estiva ad Ischia. Un intermezzo che, nell’economia della storia, ho trovato un po’ troppo lungo e, a tratti, persino fuori luogo. Al termine di questo periodo vacanziero trascorso tra piscine, bagni, cascate, idromassaggi e un conto salato i due coniugi tornano a Roma, alla loro vita di sempre. Ma Vera ha un impulso nuovo e fortissimo: decide di partire per Francoforte per andare a conoscere personalmente quel burocrate di cui da anni legge la firma sui suoi documenti. Ma ad attenderla c’è una rivelazione a dir poco agghiacciante.
La scrittura di Edith Bruck è morbida e limpida, uno stile così pacato stride, a volte in maniera quasi feroce, con le vicende narrate. Mi piace pensare che la Vera di “Lettera da Francoforte” abbia molto in comune con la scrittrice, anche dal punto di vista caratteriale. Vera, nonostante un passato così doloroso, riesce a trovare il coraggio di imbarcarsi per un’impresa che la porterà, di nuovo, a scontrarsi con un “mostro”. Se al tempo era riuscita a sopravvivere al Nazismo, ora si trova a dover fare i conti con un apparato burocratico che, come spesso accade, dimostra tutta la sua ottusità sottoforma di richieste assurde, rinvii, ritardi e cortocircuiti di pratiche ostinate e sleali nei confronti dei quali, spesso, ci si sente impotenti e in uno stato di perenne disfatta.
Edizione esaminata e brevi note
Edith Bruck è nata in Ungheria il 3 maggio del 1932 da una famiglia ebrea piuttosto povera e numerosa. A soli 12 anni viene internata in alcuni campi di concentramento e di sterminio nazisti insieme a sua sorella. Perde i genitori e viene liberata nel 1945. Ha viaggiato a lungo e, nel 1954, si è stabilita in Italia. Ha conosciuto e frequentato, tra gli altri, Primo Levi, Eugenio Montale, Mario Luzi. I suoi libri sono scritti in italiano, la lingua che ha eletto a sua lingua letteraria. Ha collaborato con varie testate giornalistiche e ha tradotto diverse opere di autori ungheresi. Tra i libri scritti e pubblicati dalla Bruck ricordiamo: “Chi ti ama così” (1959), “Andremo in città” (1962), “Le sacre nozze” (1969), “Due stanze vuote” (1974), “Il tatuaggio” (1975), “Transit” (1978), “Mio splendido disastro” (1979), “In difesa del padre” (1980), “Lettera alla madre” (1988), “Monologo” (1990), “Nuda proprietà” (1993), “L’attrice” (1995), “Il silenzio degli amanti” (1997), “Signora Auschwitz: il dono della parola” (1999), “L’amore offeso” (2002), “Lettera da Francoforte” (2004), “Specchi” (2005), “Quanta stella c’è nel cielo” (2009), “Privato” (2010), “La donna dal cappotto verde” (2012).
Edith Bruck, “Lettera da Francoforte“, Mondadori, Milano, 2004.
Edith Bruck: Wikipedia / Noi donne / Rai Scuola / Intervista
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