Tempo fa, a chiusura di un articolo su “Parsifal a Venezia”, avevamo citato delle parole di Cesare De Michelis sull’opera di Sinopoli: “prima di tutto veniva la ricerca della verità, prima dell’arte e della sua stessa arte, e le strade che ad essa potevano condurre andavano battute tutte, senza risparmio, nessuna esclusa. Il vero e il buono, dunque, venivano prima del bello, anche se quest’ultimo rappresentava un inquietante segnale di allerta, un ineludibile avvertimento di grandezza”. Parole che – difficile pensare il contrario – rimangono valide anche per “I racconti dell’isola”, manoscritti ritrovati anni dopo la morte del grande direttore d’orchestra e compositore, e pubblicati recentemente da Marsilio. Ne scrive diffusamente il figlio Giovanni nell’introduzione. In realtà di “racconto” classico queste pagine hanno poco, probabilmente in origine destinate ad ulteriore revisione; ma in ogni caso confermano quella vocazione di mitografo che Quirino Principe, con grande sensibilità, ci ha ricordato proprio in relazione all’universo musicale e all’intento di sconfiggere, o quanto meno di fermare, il tempo. Da qui un’altra citazione tratta dagli scritti wagneriani di Sinopoli, che possiamo leggere nella postfazione: “La musica è quantità, misura, nel periodo in cui viene composta o nell’attimo in cui lo strumento stimolato dal musicista, la produce. Qui si compie un salto misterioso: quello che noi ascoltiamo è immateriale, e nell’attimo in cui lo percepiamo sparisce per diventare memoria. La musica è il segno più sublime della nostra transitorietà. La Musica, come la Bellezza, risplende e passa per diventare la memoria, la nostra più profonda natura. Noi siamo la nostra memoria” (pp.78).
Nei “racconti dell’isola” (“I corvi di Apollo”, “L’albero di Ippolito”, “La nave di Ulisse”) Sinopoli è tornato quindi a cogliere legami tra il presente, quello che appare agli occhi di un osservatore attento, e un passato mitico che può essere fatto rivivere solo grazie allo strumento consapevole della memoria e della cultura. Il luogo di questo suo osservare non è più Venezia ma un altro luogo di mare, la Sicilia del padre messinese, in particolare l’isola di Lipari, una sorta di patria spirituale dove il direttore d’orchestra comprò casa, intenzionato a passarci lunghi periodi di studio. La vocazione di mitografo lo ha condotto a rilevare un terreno nella contrada del Cappero per poi costruirci Casa Aristaios, ristrutturata secondo criteri simbolisti ed ellenisti, legata ai quattro elementi e ai tre regni, l’animale, il vegetale e il minerale. L’analisi dell’ambiente circostante mediante occhio di mitografo – da cui meditazioni e non tanto divagazioni – ha condotto alle pagine di “I corvi di Apollo”, quasi appunti di una rievocazione dei tempi di Aristaios, il pastore, figlio della ninfa Cirene, grazie all’osservazione e all’idea di giovani ulivi che “s’inseguivano nello specchio del tempo” (pp.38) e dei neri volatili che “ora sostavano il loro lento implacabile deambulare sui muri a secco: sembravano attendere affamati, come allora, la maturazione del fico vicino alla rete che limita il podere, l’antica erma” (pp.39). Poi, scrive ancora Sinopoli, durante la costruzione di “Casa Aristaios” ecco l’incontro con alcuni spazi singolari, delimitazioni di spazio intermedio tra morte e vita, tali da lasciare, grazie alla consapevolezza del culto primordiale degli alberi nella Grecia arcaica, l’impressione e il ricordo del ricongiungimento di Artemide e Ippolito (morto per volontà di Afrodite). Secondo Giovanni Sinopoli uno scritto che evidenzia una sovversione di ruoli, alluso già dallo strano giardino di Afrodite: l’una “è la dea dell’amore, Artemide della caccia e della morte […] Tuttavia nel mito da cui trae origine il racconto “L’albero di Ippolito” i ruoli si invertono […] sarà Artemide a salvare Ippolito rinato, mentre alla gelosia di Afrodite egli deve la morte” (pp.25). Infine la rievocazione dell’approdo nell’isola di uno stanco Ulisse che sceglie “Casa Aristaios” per terminare la propria esistenza, “perché sapeva che era giunto il momento di congedarsi dalla vita, dialettica eterna di essere e di coscienza, di luce e di oscurità” (pp.70). Ancora una volta torna evidente il tema del tempo, già ricordato in relazione alla memoria musicale, che trasfigura la morte in un tutto e in un’unità “non più divisibile” (pp.70). Il mito, ritrovato nei luoghi dell’isola, che – citiamo Quirino Principe – “si racconta e riesce così a sconfiggere il Tempo” (pp.79).
Edizione esaminata e brevi note
Giuseppe Sinopoli, nato a Venezia nel 1946, cominciò a interessarsi di musica all’età di 12 anni. Debuttò in qualità di direttore d’orchestra con la Deutsche Oper di Berlino, dirigendovi il Macbeth di Verdi nel 1980. Nel 1983 successe a Riccardo Muti nella direzione della New Philarmonia di Londra. Il suo debutto a La Scala risale al 1994, anno in cui vi diresse l’Elektra di Richard Strauss. Dal 1990 era il principale direttore della Deutsche Oper di Berlino e, dal 1992, della Staatskappelle di Dresda. È morto d’infarto dirigendo l’Aida alla Deutsche Oper di Berlino nel 2001.
Giuseppe Sinopoli, “I racconti dell’isola”, Marsilio (collana Gocce), Venezia 2016, pp. 79. Prefazione Giovanni Sinopoli. Postfazione Quirino Principe.
Luca Menichetti. Lankenauta, settembre 2016
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