“E laggiù, in un angolo del giardino annesso alla loro vecchia casa, fra le zolle che la primavera cominciava a spaccare, ai piedi d’un giovane noce che stava mettendo le prime foglie, seppellì Tombo con tutti gli onori. Era una giornata dolce, c’era un odore di salvia e chioccolio di galline dagli orti accanto; il sole principiava appena a scottare. Laggiù dunque mi auguro riposi ancora in pace l’eroe di questa storia”(p.98).
Cominciamo dunque dalla fine, da questo splendido e malinconico passo con cui Landolfi si congeda dal suo atipico protagonista. Un scimmia, o “scimia”, come usa scrivere l’autore di Pico lungo tutto l’arco della narrazione, che diventa, suo malgrado, simbolo della follia del dogma, della fede cieca, dell’annichilimento consapevole del proprio libero arbitrio, in “ragione” – mai termine fu usato più a sproposito – di un’ottusa convinzione assai diffusa nei paesini dell’Italia rurale del tempo: tutto è peccato, o quasi, soprattutto se si ha a che fare con la religione.
Ma torniamo al principio, al contesto in cui Landolfi ambienta questa novella corrosiva. Un paesino qualunque (del basso Lazio, o del meridione, sembrerebbe), grigio e ignorante quanto basta, che non si priva di nessuno degli stereotipi del caso. Ma Landolfi scorre subito oltre, alle due altrettanto grigie possibili protagoniste, visto il titolo: due zittelle. Due zittelle? Eh si, proprio due zittelle: due zitelle zitte, come ci spiega lo stesso autore. Landolfi ama giocar con le parole, con la lingua, finanche con la sintassi, inventando spesso veri e propri neologismi e avventurandosi in ardite costruzioni narrative. Detto ciò, non vi sorprenderete certo di questo titolo, che ha il pregio di fotografare con una immagine sarcastica l’intera prima parte del libro. Anziane, brutte e baffute (mustacchiose, ci dice Landolfi), le zittelle Lilla e Nena sono succubi di una madre vecchia quanto un rudere, malata, e nonostante ciò più che mai dispotica, nemmeno arrendevole una volta sopraggiunta la quasi totale immobilità fisica. Soggiogate psicologicamente, sostanzialmente serve fino alla dipartita – assai tardiva – della vecchia, morigerate e timorate di Dio, le due anziane sorelle vivono da sempre nella loro borghese casa-prigione; non hanno mai conosciuto un uomo in senso “biblico” – e Landolfi lo rimarca senza pietà -, sono sostanzialmente due esseri inutili e privi di senso e di ragione, presente e futura. Con loro vive Tombo, scimmiotto approdato in dono nella casa delle due sorelle, evocante il ricordo del fratello contrammiraglio, purtroppo deceduto, ma vissuto quanto basta per portare l’animale al paese, al ritorno da uno dei suoi lunghi viaggi. Alla morte della madre, pertanto, in casa (soprav)vivono le zittelle, la domestica – anch’ella brutta e ignorante quanto basta – e Tombo, decisamente il più vivace della compagnia. Vivacità, ahi lui, che gli costerà assai cara, che creerà addirittura accese dispute telologiche, che ci condurrà ad un epilogo, come dicevo all’inizio, che trasforma la satira in fitta malinconia, in una sorta di parabola sulle beffe dell’esistenza, in un teatro dell’assurdo fin troppo verosimile. Landolfi aveva questa capacità naturale di narrare evocando sentimenti contrastanti, mai banali e mai tenui. In siffatto racconto il tormento dell’autore è evidente, il rifiuto delle convenzioni degli uomini del suo tempo più che palese, il disprezzo per i personaggi-stereotipo che inventa assoluto, senza alcuna possibilità di salvezza o redenzione. Non inganni la satira, perché qui si ride amarissimo e in parte, che strano non vi sembri, ci si commuove: l’epilogo di Tombo, reo solo del sentirsi vivo in una casa di “morti viventi”, fa davvero male, ancorché si tratti di un animale, del non troppo amato scimpanzé – mica un micietto o un cagnolino, cari animali domestici. Landolfi anche in questo dimostra la distanza emotiva dagli uomini, propria di colui – dei tanti, non vi stupite – che trovano la dignità di un animale non meno importante di quella di un essere umano. Di qui anche la disputa religiosa, farsesca e surreale quanto volete, ma quanto mai caustica e tagliente, nella quale l’autore casertano mette a contrasto la fede inscalfibile con il libero arbitrio, il dogma cieco con la “ragione ragionevole”, non dunque la ragione come ideologia. La disputa religiosa, tra un severo e anziano monsignore e un giovane prete, costituisce il motivo principale dell’opera, il corpo della narrazione. Difficile capire se Landolfi avvicini le teorie dell’ uno o dell’altro contendente, o meglio, certamente è lontano dal monsignore, ma esaspera talmente gli interventi dell’infervorato giovane prete, tanto da farlo sembrare un folle delirante. Eppure, a legger bene, il giovane antagonista, pur animatamente, nel voler difendere Tombo, condannato a morte per aver oltraggiato – involontariamente: è uno scimpanzé – il Corpo di Cristo (l’ostia consacrata), non è lontano da una “fede ragionevole”: “L’uomo pecca soltanto perché non può non peccare; ma poi non pecca. Né può essergli il male più gradito o necessario del bene, anzi non può essergli neppure necessario; perché è, come il bene, lui stesso. Ed è lui stesso perché è Dio stesso. Non c’è male e non c’è bene. Il male e il bene, anch’essi, sono, ché Dio è soltanto. E sono come una cosa sola, non l’uno contro l’altro. Anch’essi sono il corpo vivente di Dio…”(p.83).
Siamo decisamente su un territorio teologico, ma anche filosofico nel quale, come ripeto, l’interpretazione del messaggio primordiale del Cristo va a confrontarsi con la capacità di discernimento, con la coscienza di sé, con il libero arbitrio, con il concetto di natura umana. Siamo a immagine e somiglianza di Dio? Siamo compenetrati da Dio? Siamo solo un suo riuscito prodotto? Ma se siamo cosi riusciti, il più riuscito essere da Lui creato, perché non dovremmo essere partecipi della sua essenza? Perché, essendo sua diretta emanazione, non potremmo essere veramente a sua stessa immagine? E poi, se ci ha donato il libero arbitrio, la capacità di scegliere consapevolmente, di discernere, di agire consci d’ogni conseguenza, perché dovrebbe punirci per aver esercitato queste capacità da Lui stesso fornite? Questo, in sostanza, a quel che ho interpretato, sembra chiedersi Landolfi, nemmeno troppo velatamente.
Avrete capito certo, fuori da ogni possibile apparenza o suggestione legata al titolo, quanto complesse e degne di nota e spunti di riflessione possano essere queste appena cento pagine, questo racconto che, a opinione del suo creatore, è il migliore da lui realizzato. A conforto di questa tesi si espresse Montale, che considerò Le due zittelle, nella prefazione anonima al testo, comunque a lui attribuita “…uno dei maggiori incubi psicologici e morali della moderna letteratura europea”. Per quel che conosco della letteratura del tempo, non posso che sottoscrivere. Siamo infatti nel marzo del 1943, periodo nel quale lo scrittore casertano termina di scrivere Le due zittelle, dapprima pubblicato su un quotidiano, poi stampato in volume, ma edito da Bompiani solo tre anni dopo. Bompiani e non Vallecchi, rara escursione del Nostro verso altri lidi editoriali, dovuta all’attendismo del precedente editore. Tutto rientrato, ad ogni modo, con tanto di riacquisizione dei diritti dell’opera dal testo successivo: il legame Landolfi-Vallecchi durò ancora per molti anni.
All’interno de Le due zittelle si respira un’aria che ricorda le splendide descrizioni in versi e musica – per noi tutti più recenti – del compianto Fabrizio De André: non tanto per il linguaggio, comunque rimarchevole e ricercato in ambedue, quanto per le atmosfere, le stesse contenute nelle indimenticate ballate del primo De André, come La città vecchia, Bocca di rosa e Via del campo.
Un testo notevole, dunque, per le molteplici ragioni che mi sono sforzato di portarvi ad evidenza, nel quale l’amarezza sovrasta il sarcasmo (e la satira), pur elargito a piene mani. Resta l’assurdo, la condanna a morte di uno scimpanzé, unico “vero vivente” in un regno di morti, in una casa fattasi tomba da tempo immemore per le inquiline zittelle alle quali Landolfi, nemmeno nella conclusione, raccontandoci delle anime del racconto, regala un briciolo di dignità narrativa: “Qui appunto son sepolte le due zittelle, di cui anche spero che riposino in pace. E a chi guardi attorno pare, insomma, che su ogni cosa si sia deposta un’impalpabile polverina grigia” (p.101).
E mi chiedo, come è possibile che testi di tale spessore riposino da lungo tempo nell’oblio della letteratura nostrana? Ergo, le antologie italiane sono piene di evidenti usurpatori: c’è qualcosa che non mi torna. O che forse mi torna anche troppo.
Federico Magi, aprile 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova. Tradusse – tra gli altri – Novalis, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Lermontov, Puskin.
Tommaso Landolfi, Le due zittelle, prima edizione Adelphi: settembre 1992, decima edizione: febbraio 2006. Prima edizione, Bompiani: gennaio 1946. Nota al testo di Idolina Landolfi.
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