“Chi ti ama così” è l’opera prima della Bruck: “Ho cominciato a scrivere questo racconto autobiografico alla fine del 1945 in Ungheria, nella mia lingua. Ma durante la fuga in Cecoslovacchia persi il mio quaderno marrone che conteneva anche poesie scritte nell’infanzia e dedicate a mia madre. Ho cercato poi di riscriverlo più volte nei vari paesi dove sono stata. Solo a Roma, tra il 1958 e il 1959, sono riuscita a scriverlo fino in fondo in una lingua non mia“.
Edith Bruck è una sopravvissuta alla Shoah. E’ nata in un piccolo villaggio ungherese che si trova tra l’Ucraina e la Slovacchia nella notte del 3 maggio del 1932 da una famiglia ebrea piuttosto povera:“… mia madre non desiderava altri figli: erano già in troppi in quella casetta che stava crollando sotto il peso degli anni. Ma la gente, più povera era e più figli aveva…“.
Nel 1944 Edith ha solo 12 anni e si ritrova a vivere uno dei periodi più tristi e dolorosi della sua esistenza. Viene condotta, assieme alla sua famiglia e a molti altri ebrei, presso la Sinagoga del luogo. “Mi guardai attorno e mi accorsi del mondo dove vivevo, e osservai quello che accadeva non più come una bambina. La mattina dopo ci portarono alla stazione. Facendoci attraversare tutto il paese ci davano calci e ci sputavano in faccia. Si divertivano, i nuovi signori. Era impressionante per me vedere come la gente cambia pelle al pari dei serpenti e vomita veleno“.
La meta successiva è il ghetto di Satoraljaujhely dove la famiglia della scrittrice vive per cinque settimane. Perquisizioni, vessazioni e “l’ordine di tagliarci i capelli corti perché il ghetto cominciava ad essere pieno di pidocchi“. Il 23 maggio 1944 Edith e i suoi vengono fatti salire su un vagone, dall’Ungheria i deportati arrivano in Germania. La ragazzina si ritrova con sua sorella Eliz nella fila destra (quella dei lavori forzati) dopo essere stata strappata dalle braccia di sua madre che, invece, è destinata alla fila di sinistra, quella nella quale viene ammassato chi finirà nel forno crematorio. “Ci avvisarono di non dire eravamo sorelle o parenti o minori di sedici anni o maggiori di quarantacinque perché ci avrebbero senz’altro divise. Intanto una donna robusta ci tagliava altri peli. E tutto con violenza: ci disinfettarono e ci diedero un vestito di stoffa ruvida grigia. Degli zoccoli, un numero. Da quel momento quel numero fu il nostro nome. Poi in fila, per cinque come al solito, e via. Il nome del luogo era Auschwitz“.
Lager C, baracca 11. E’ qui che Edith ed Eliz trascorrono i mesi successivi. Il racconto è scheletrico e minuzioso. La protagonista/scrittrice ha il potere di fissare i ricordi come fossero fotogrammi. Frasi brevissime ed immediate, immagini repentine e terrificanti di una realtà che non smette di inquietare anche se letta e detta migliaia di volte. L’abominio è lo stesso: fame, freddo, punizioni, morte, malattia, torture e, immancabile, l’indifferenza di Dio. “Pensavo solo a Dio, a Jeova, a Mosè con i suoi dieci comandamenti e alla legge di Dio per il suo popolo eletto. Popolo eletto! Ridevo come una pazza e maledicevo anche il cielo“. Edith rischia di finire in crematorio ma riesce a scappare per ben due volte dal famigerato blocco n. 8. Poi, un giorno, la partenza. Le più forti vengono destinate ad un altro lager, quello di Kaufering. Le due sorelle lavorano alla realizzazione di strade e fossati, vengono successivamente spostate a Landsberg per compiere lo stesso pesante lavoro e infine a Dachau. Ma non è finita perché i tedeschi, sempre più in crisi, decidono di spostare altrove tutti i prigionieri che possono. Edith ed Eliz vengono caricate di nuovo su un carro bestiame e condotte in un posto chiamato Christianstadt ma da lì un altro terribile trasferimento a piedi. “Camminavamo notte e giorno con le nostre ultime forze. Ogni tanto distribuivano un pane per cinque persone ma se non tenevamo forte il nostro pezzo, una compagna ce lo strappava di mano“. La destinazione, dopo tanta fatica, viene raggiunta: Bergen-Belsen. Edith è circondata dai moribondi, le malattie e i pidocchi investono tutto il campo ma, dopo altre settimane di inferno, la mattina del 15 aprile 1945 i tedeschi non si presentano per il solito appello mattutino. Le prigioniere, spaventate ed incredule, vedono entrare nel campo i mezzi della Croce Rossa: “Ci facevano segno di avvicinarci e di toglierci i vestiti, ci guardavano con pietà e schifo. Chiesero se fossimo tutte donne; ci meravigliavamo che dubitassero del nostro sesso“.
Dopo circa un anno dalla cattura Edith e sua sorella Eliz vengono liberate. Le pagine dedicate al ritorno sono intrise di amarezza e alienazione. Dopo cinque mesi, alla fine del 1945, le due ragazze arrivano a Budapest. La guerra ha devastato la città e cercare i parenti più stretti è l’unica cosa possibile: la sorella Margo, il fratello Peter, l’altra sorella Leila. La vecchia casa in cui Edith viveva con i suoi genitori è stata depredata e svuotata di quasi tutto. La vita della Bruck non è semplice. E’ solo una ragazzina e vorrebbe poter godere di quella giovinezza che qualcuno le ha portato via. E così sposa uomini sbagliati e divorzia per ben due volte prima ancora di compiere 20 anni. Eppure né in Ungheria, né in Cecoslovacchia, né in Israele riesce a trovare serenità. Approda così in Italia nel 1954 e, dopo qualche anno, prende una penna in mano ed inizia a raccontare la sua storia.
Edizione esaminata e brevi note
Edith Bruck è nata in Ungheria il 3 maggio del 1932 da una famiglia ebrea piuttosto povera e numerosa. A soli 12 anni viene internata in alcuni campi di concentramento e di sterminio nazisti insieme a sua sorella. Perde i genitori e viene liberata nel 1945. Ha viaggiato a lungo e, nel 1954, si è stabilita in Italia. Ha conosciuto e frequentato, tra gli altri, Primo Levi, Eugenio Montale, Mario Luzi. I suoi libri sono scritti in italiano, la lingua che ha eletto a sua lingua letteraria. Ha collaborato con varie testate giornalistiche e ha tradotto diverse opere di autori ungheresi. Tra i libri scritti e pubblicati dalla Bruck ricordiamo: “Chi ti ama così” (1959), “Andremo in città” (1962), “Le sacre nozze” (1969), “Due stanze vuote” (1974), “Il tatuaggio” (1975), “Transit” (1978), “Mio splendido disastro” (1979), “In difesa del padre” (1980), “Lettera alla madre” (1988), “Monologo” (1990), “Nuda proprietà” (1993), “L’attrice” (1995), “Il silenzio degli amanti” (1997), “Signora Auschwitz: il dono della parola” (1999), “L’amore offeso” (2002), “Lettera da Francoforte” (2004), “Specchi” (2005), “Quanta stella c’è nel cielo” (2009), “Privato” (2010), “La donna dal cappotto verde” (2012).
Edith Bruck, “Chi ti ama così“, Marsilio, Venezia, 1994.
Edith Bruck: Wikipedia / Noi donne / Rai Scuola / Intervista
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