“Avevamo ammucchiato mezzo metro di roba morbida, fra cui: due polverose valigie di pelle, una polverosa discreta quantità di carta e cartone, della tela che era appartenuta al catino polveroso di una tenda da campeggio (che si chiama catino lo so perché l’ho letto su una pubblicità), alcuni polverosi vestiti usati, due cuscini di un divano ormai dilaniato dalla polvere e dai ragni, alcuni polverosi sacchi di tela verde, il cui contenuto è rimasto ignoto. Ho pensato a Tex, alle notti accanto al fuoco da campo, al cielo stellato. Ho pensato che mancava un’armonica, anche se non sapevo suonarla.” (p. 20).
Eh sì, proprio Tex Willer, la pistola più veloce del West vive nell’immaginario di un ragazzino rumeno che ha imparato l’italiano attraverso i fumetti del suo nuovo eroe, conosciuto il giorno stesso del suo difficoltoso ingresso nel Bel Paese. Emil ha 13 anni, ma ne ha viste già molte per l’età che ha: orfano di madre, è entrato clandestinamente in Italia due anni or sono insieme al papà, su un camion carico di riso parboiled. Si è subito ambientato, ma la sua vita a Torino è stata fino a questo momento assai difficoltosa, nonostante la buona integrazione, la scuola e un alloggio trovato grazie alla relazione del padre con Assunta, una prosperosa donna delle pulizie. Pochi mesi dopo, in effetti, il papà è stato rimpatriato in seguito ad una rissa, ed Emil e Assunta hanno trovato rifugio presso l’abitazione di un malinconico architetto che manifesta una morbosa attrazione nei confronti del ragazzo. Ma l’ambiguo interesse dell’architetto e l’impossibilità del padre di tornare in breve tempo, perché recluso in un carcere rumeno, fanno prendere ad Emil una decisione rischiosa ma risoluta: andare in cerca di nonno Viorel, artista di strada itinerante che il giovane conosce solo attraverso le lettere che gli arrivano da ogni parte d’Europa. Ultimo domicilio conosciuto: Berlino. Qui comincia il viaggio di Emil, e in sostanza anche questa piacevolissima e non banale opera prima di Fabio Geda, che immagina un ragazzino vivace e pieno di vita, in circostanze inusuali per l’età, districarsi assai bene attraverso le tante situazioni non semplici che si troverà ad affrontare, ma che con il tocco magico dell’infanzia che va a incontrare l’adolescenza saprà riconvertire in energia attiva, contagiando positivamente gran parte dei personaggi che incontrerà sulla sua strada.
Asia, Cora, Nerone, Leon e il cane Lufthansa sono i suoi primi compagni di viaggio, proprio durante le festività natalizie, alla ricerca del nonno in una fredda Berlino invernale. A loro seguirà Sebastiano, fotografo del National Geographic, con il quale Emil trascorrerà lietissimi e spensierati giorni in Francia, che lo affiderà all’amico Raul per farlo accompagnare verso l’ultimo approdo: Madrid, dove la compagnia teatrale di nonno Viorel dovrebbe trattenersi fino a febbraio inoltrato. La lunga ricerca di Emil si conclude in compagnia di tutti – o quasi (se si eccettuano Nerone e Leon: le due uniche figure negative della storia, unitamente all’architetto) – i personaggi che lo hanno accompagnato in questo viaggio: Asia e Cora, Sebastiano e Lola, Raul e i suoi sette figli riuniti a testimoniare l’affetto per quell’imprevedibile ragazzino dalla vitalità contagiosa che, rincorrendo con tenacia la sua felicità, ha cambiato in meglio anche le loro vite.
Una storia semplice, avvincente, a conti fatti e per una volta, visto il tema, edificante; raccontata con efficacia dall’allora 34enne torinese Fabio Geda, il quale sicuramente ha fatto ricorso alla sua esperienza di educatore per immaginare la figura del giovane protagonista, che lui giura comunque di non aver mai conosciuto nella realtà. Di più, Geda ci fa capire con un “chissà” che gli piacerebbe incontrarlo; e noi gli crediamo, non possiamo non credergli visto l’amore e la ricercatezza con cui connota il suo personaggio. In effetti, molta della forza di Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani risiede proprio nel suo protagonista, talmente ben costruito dall’autore da restituire un appeal magnetico, il quale nonostante qualche inevitabile ammiccamento pensato a tavolino, cattura senza artifici l’attenzione del lettore. Emil è contagioso, come raramente può esserlo un tredicenne filtrato dalla pagina scritta, un adolescente inquieto ma positivo che non si fa vincere dalla depressione e dal destino avverso, che riesce in 200 pagine a cancellare il fastidioso ricordo dei tanti adolescenti omologati o narrativamente stereotipati che spesso troviamo nella letteratura contemporanea. Merito di Fabio Geda, il quale ha la buona intuizione di impostare il libro su due io narranti non perfettamente simmetrici. Se il grosso della narrazione è centrato sul racconto in prima persona di Emil, i passaggi più riflessivi e scollegati dal viaggio di ricerca sono quelli in cui il tempo retrocede alla permanenza del ragazzo rumeno in casa dell’architetto, nei quali quest’ultimo diventa l’io narrante. Quando entriamo nella mente dell’architetto scopriamo un mondo più inquieto ed ambiguo, fitto di malinconia e di malsane e in parte contrastanti passioni nei confronti del ragazzino. Però Geda non spara a zero su questo personaggio, ci dice del suo mondo ma lo guarda con distacco, concentrandosi sull’ amato protagonista, svelandoci solo prima dell’epilogo, ma facendoci intuire già da prima, il motivo ultimo che fa scattare in Emil la scintilla del viaggio alla ricerca del nonno. Lo stesso Emil ne ha cancellato sostanzialmente il ricordo, conservando soltanto quel senso di disagio, di rabbia e d’incredulità percepito nel momento in cui l’uomo ha perso il controllo nei suoi confronti. Eppure i dialoghi tra Emil e l’architetto sono uno dei fiori all’occhiello dell’opera di Geda, perché più sottili, meno ammiccanti e per certi versi più angosciosi. Sono una sorta di necessario bilanciamento rispetto al resto della narrazione.
Tutti gli altri personaggi, invece, in positivo o in negativo assumono una valenza e una connotazione fiabesca; a partire da Nerone che odia a pelle il ragazzino, per finire con Raul il quale, nonostante avesse a carico sette figli abbandonati dalla madre, accoglie Emil come fosse l’ottavo, tanto da far ingelosire il più grande dei fratelli. Certo ci sono anche delle ingenuità nel romanzo di Geda, il quale intreccia a volte i nodi della storia in modo un po’ troppo semplice o artificioso, senza peraltro sfilacciare o appesantire la narrazione. Sarà che la potenza narrativa di Emil fagocita tutto e abbatte qualsiasi barriera o pregiudizio possibile da parte del lettore, il quale non può non cedere alla verve di un protagonista che si immedesima in Tex Willer per sfidare le avversità e vincerle attraverso la trasfigurazione del mondo reale, con tutti i suoi grigiori, in un fumetto – una fiaba – in cui vengono esaltate le componenti eroiche, dinamiche, vitalistiche. È un modo – per fortuna e per una volta – diverso di presentarci i complicati e rischiosi riti di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, e al contempo una visione dell’immigrazione davvero lontana tanto dallo stereotipo buonista che da quello che vede lo straniero (il rumeno in particolare, viste le cronache degli ultimi anni) come un pericolo costante, se non addirittura come una bestia senz’anima. E che a raccontarci questa divertente, non banale e coinvolgente storia sia un educatore, un vero educatore, non è affatto casuale. Per quanta immaginazione si può avere certe cose bisogna conoscerle, bisogna viverle, pur di rimando, sulla propria pelle. Spero davvero che Fabio Geda incontri Emil, prima o poi. Del resto, non vi nascondo, da ex educatore mai pentito di esserlo stato, che sarebbe piaciuto anche a me incontrare Emil, nel mondo reale. Difficile davvero non provare empatia nei suoi confronti.
“In quell’istante ho pensato. Tutte le persone del mio viaggio sono riunite attorno a questa tavola. Così quando Sebastiano ha detto: – Ho capito – era come se lo avesse solo pensato e il suo pensiero fosse volato a noi con la telecinesi o la telepsicosi o come cazzo si dice, e quando ha chiesto a Raul di andare a prendere una cartina della città e a me di prendere il volantino trovato a Lavapiés è stato come se avesse detto ‘Vi nomino cavalieri della Tavola Rotonda’. Magico.” (p.193).
Federico Magi, marzo 2010.
Edizione esaminata e brevi note
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