La vicenda di Irina Lucidi, avvocato originario di Ascoli Piceno che vive vicino a Losanna, è un fatto di cronaca alla portata di tutti, nella sua agghiacciante drammaticità.
Dei suoi risvolti in termini di tempi, circostanze, testimonianze (rare), spostamenti di denaro e indagini giudiziarie si può trovare traccia, ben più che soddisfacente e – si suppone – autorizzata, in rete, risalendo a ritroso fino alla fatidica Data X, del 30 gennaio 2011.
La traccia che, invece, è ancora ben lungi dall’essere stata ricomposta, a dispetto di qualche ottimistica recente segnalazione, è quella delle due bambine scomparse, le gemelline Alessia e Livia, figlie, appunto, di Irina.
Curiosamente, Mi sa che fuori è primavera, romanzo a due voci (quella di Irina e quella, filtrante in corsivo, di Concita De Gregorio) si inserisce in un filone, decisamente modaiolo, di romanzi (thriller psicologici, per lo più) che di scomparse di esseri umani, prevalentemente bambini, trattano.
Per citarne solo alcuni, attualissimi, La bambina scomparsa di David Bell, dove l’adolescente Caitlin ricompare a distanza di ben quattro anni al cospetto dei genitori, dai quali li separa uno spazio ormai siderale ed emotivamente incolmabile, a causa del suo concentrato vissuto esperienziale; Una famiglia quasi perfetta di Jane Shemilt, nel quale più o meno omologhe sono la sparizione e il ritrovamento di Naomi, con tutte le fantasiose conseguenze che comporta, penose nonostante una certa dose di inverosimiglianza; Non è mia figlia di Sophie Hannah, dove il presunto rinvenimento della figlia è tutt’altro che consolatorio; fino a risalire di parecchi anni indietro al paradossale Bambini nel tempo di Ian McEwan, nel quale – come qui – non vi è nessuna epifania sperata della piccola Kate, ma solo un poeticissimo ‘surrogato’ diegetico nello struggente finale.
Tuttavia – quand’anche, deliberatamente o meno, questo romanzo si infili nella corrente ‘di tendenza’ letteraria (ma non solo: si pensi alla straordinaria interpretazione di Michelle Pfeiffer, nei panni della madre deprivata dell’adorato figlio, ma ancora speranzosa di ritrovarlo, nel film In fondo al cuore di Ulu Grosbard, dove la sparizione/riapparizione è pretesto per una scelta dilaniante per tutti, che resta sospesa fino agli ultimi fotogrammi) dei desaparecidos – questa è una storia vera.
Neppure i nomi dei protagonisti sono stati sostituiti, tutt’al più impercettibilmente camuffati: ‘Matthias’, il marito di Irina e padre delle bambine, diventa nel romanzo ‘Mathias’ e ‘Valerio’, fratello di Irina, vi figura come ‘Vittorio’, ma resta solo un’illazione che sia la stessa persona, non avendo elementi a disposizione per escludere che si tratti di un secondo fratello.
Del suicidio di Mathias, a seguito di una parentesi coabitativa e vacanziera con le figlie, ben poco si può dire, se non constatarne la convergenza di un triste epilogo coniugale, mai digerito, con una patologia psichiatrica covata sotterraneamente e, dall’interno della famiglia, probabilmente fatta passare in sordina, in quanto mai riconosciuta o del tutto identificata come tale.
La parabola di un gesto tanto individuale quanto, in questo caso, collaterale (non solo nelle implicazioni emotive: in quanto il padre si è effettivamente portato via anche le bambine) viene riconsiderata da Irina come esito di quel discrimine problematico che lei stessa affibbia clinicamente al temperamento del marito, definendolo “psicorigido”. Ma soltanto dopo.
Questo dato di acquisizione tardiva pare aggravare ulteriormente il senso di colpa cui Irina, a più riprese, fa cenno a proposito della ‘sostituzione’ delle figlie, in termini affettivi, con Luis, il suo nuovo compagno e, riempitivamente, con l’appropriazione di nuovi passatempi (come la bicicletta) o l’applicazione ad altri già pre-esistenti (come il mare e le creature che lo abitano).
La sopportazione dell’assenza permanente delle figlie, infatti, pur nel riconoscimento (abbastanza inflazionato, questo sì!) dell’innominabilità di questo stato di amputazione emotiva (almeno nella lingua italiana) e della necessità contestuale di sopravvivervi a ogni costo – anche solo per ottenere una risposta finalmente risolutiva all’inchiesta – prevede comunque la sottomissione a una regola sociale non scritta, ma comunemente accolta: la generosa e mai scontata elargizione da parte degli altri della legittimazione a poter continuare a vivere, più o meno, dignitosamente.
Dignitosamente, come prima di essere madre.
Come prima delle madri, riecheggiando un romanzo a sfondo storico di Simona Vinci. Un altro romanzo, un’altra storia, un’altra Irina.
Edizione esaminata e brevi note
Concita De Gregorio (Pisa, 1963), giornalista, scrittrice italiana.
Concita De Gregorio, Mi sa che fuori è primavera, Milano, Feltrinelli, 2015, pp. 122, euro 13,00.
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