Che la politica non fosse rose e fiori, che fosse il luogo principe di compromessi, mediazioni e piccoli grandi ricatti; che in un grande partito convivano diverse anime e diversi interessi, che la concorrenza interna ad esso sia spietata, dal vertice alla base, non ce lo doveva certo spiegare George Clooney, il quale al suo quarto lungometraggio dietro la macchina da presa sceglie un thriller politico dal taglio esplicitamente morale per convincere il pubblico e i membri dell’Academy che si possono fare film che coniugano impegno civile e intrattenimento. Con un occhio al botteghino e uno ai premi che contano (già 4 candidature al Golden Globe nelle categorie maggiori), in effetti, Clooney ritorna al cinema d’impegno politico, dopo la parentesi in chiaroscuro di Good Night and Good Luck, film che racconta la storia vera del giornalista statunitense Edward R. Murrow, figura storica della lotta contro il maccartismo, che era piaciuto assai alla critica ma molto meno al pubblico. Con Le idi di marzo, titolo che richiama in modo diretto la morte di Caio Giulio Cesare, avvenuta a Roma nel 44 a.C., assassinato durante una seduta al Senato dai nemici a cui aveva concesso clemenza, dagli amici a cui aveva concesso onore e gloria, e da coloro che aveva nominato eredi nel testamento, il regista-attore americano palesa da subito che la sua è un’opera in cui si parlerà di tradimento, in primis, e di delitto, più morale che fisico (nonostante un decesso ci sia), il quale però sembra non contemplare il conseguente castigo, quanto meno della giustizia terrena. C’è uno sconcerto ben peggiore, a dire il vero, che la pellicola riserva alle anime candide, ed è quello che non v’è castigo nemmeno per la coscienza, per i protagonisti sulla ribalta. Morale della favola: la competizione politica, soprattutto ad alto livello, è quasi un’incarnazione del demone faustiano, il quale annulla ogni scrupolo residuale delle nostre coscienze promettendoci ricchezza, prestigio e potere, ma rubandoci sostanzialmente l’anima.
È la storia di Stephen Meyers (Ryan Gosling), giovane e brillante addetto stampa per la campagna elettorale di Mike Morris (George Clooney), governatore della Pennsylvania e candidato democratico alla presidenza, in competizione col senatore dell’Arkansas Ted Pullman. Lo scenario è la campagna elettorale in Ohio, che sembrerebbe decisiva per stabilire chi sfiderà il candidato repubblicano alla presidenza. Ago della bilancia potrebbe essere Franklin Thompson, senatore democratico della Carolina del Nord, che possiede un numero cospicuo di delegati. Morris, che ispira la sua campagna elettorale a idee ultra liberal, non vorrebbe però chiedere i voti a Thompson, molto meno libertario di lui e pronto a chiedere un posto di assoluto rilievo in caso di vittoria democratica alle presidenziali. Questo l’intreccio che innesca un perverso gioco di intrighi e sotterfugi, dove ognuno è pronto a sopraffare l’altro e a passare non solo sopra ipotetici ideali, ma anche sulla morte di una giovane stagista. Alla fine dei giochi, anche l’addetto stampa idealista ne uscirà totalmente trasfigurato.
Non sveliamo altro, perché Le idi di marzo, per quanto opera morale, resta pur sempre un thriller, e anche di buona fattura. In effetti il film scorre, e scorre bene, coinvolge senza l’ausilio di particolari artifici ma grazie a una pregevole scrittura basata sull’essenzialità di dialoghi pungenti e verosimili. La regia di Clooney non è invadente ed è ben centrata sugli attori, tutti bravi e professionali con nota di merito per Ryan Gosling e Evan Rachel Wood. Il Clooney attore resta giustamente sullo sfondo, salvo che nell’emblematico sottofinale, e Philip Seymour Hoffman, Marisa Tomei e Paul Giamatti confermano, se mai ce ne fosse bisogno, che anche in parti marginali sono il meglio del meglio che il cinema americano può fornire. Il tema di fondo, per quanto affatto oscuro a chi si è fatto un’idea di come funzionano i meccanismi che determinano, in politica e non solo in politica, gli equilibri di potere, è comunque duro da digerire, tanto più che Clooney sceglie, da liberal e democratico, il partito democratico al tempo di Obama per mostrarci il lato oscuro di una campagna elettorale per competere alle presidenziali. Figuriamoci se fossero stati repubblicani, quali efferatezze ulteriori avrebbe immaginato di mostrarci.
Di là dalle più che legittime tendenze di parte che può avere qualsiasi artista, Le idi di marzo sembra in effetti non voler indulgere in distinzioni di sorta, ma mostrarci la politica, quella reale, elaborata dai suoi spietati protagonisti dietro le quinte. Ecco che il dubbio sorge più che lecito, nello spettatore, pensando a come possono essere stati ratificati accordi fondamentali, nazionali e internazionali, se questa è la misura. L’America di Clooney peraltro è solo un paradigma, quanto mai calzante, del modello politico di riferimento più o meno comune a tutte le grandi nazioni dominate da lobby e interessi di parte. C’è poco da stare allegri, ma lo sapevamo, come sapevamo che Clooney ha sempre più voglia di essere protagonista di film politici e d’impegno civile, sia come attore che come regista. Certo, a sentire i discorsi dei politici americani nei film, così pregni di retorica da sembrare quasi infantili, verrebbe da riabilitare tanti dei nostri parlamentari dalle discutibili qualità politiche, quanto meno incapaci di simili sproloqui. Ma il linguaggio politico americano è così, oramai è noto, ricettivo di quell’american dream attraverso l’apologia del quale le diverse amministrazioni hanno sempre ammorbidito il popolo, spacciando di fatto interessi di parte per interessi pubblici.
Federico Magi, gennaio 2012
Edizione esaminata e brevi note
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