Valigie leggere, il più leggere possibile, dopo aver bruciato il passato per riaggiornare un presente che guardi a un futuro più lieve, senza vincoli strutturali e aperto alla spensieratezza e alla possibilità. È un inganno, palese quanto occultato prima di tutto a sé stesso che ai tanti volti tutti uguali a cui indorare la pillola di un infausto evento: il licenziamento. Questo il ruolo – l’unico, ancorché redditizio – che ricopre nella vita l’affascinante Ryan Bingham, un moderno “tagliatore di teste” che passa le giornate in volo, che vive senza legami e che trascorre in una casa dall’arredo quanto mai essenziale non più di 45 giorni l’anno. Bingham ha fatto della leggerezza e del disimpegno il suo stile di vita; par essere felice così, accumulando ore di volo e tessere onorarie, facendo conferenze motivazionali e licenziando persone con estrema disinvoltura, con un sorriso rassicurante sulle labbra. Di questa routine ha fatto la sua culla, la sua protezione, e tutto vorrebbe tranne che la consuetudine vissuta mutasse di una virgola. Sembra effettivamente inattaccabile nel suo rilassato disincanto. Eppure qualcosa muta, si insinua lieve come l’aria artificiale che respira tutti i giorni in aeroporto, sia nel campo del lavoro che in una vita sentimentale consacrata anch’essa a leggerezza e disimpegno e scandita da interazioni basate su un nulla confortante. Piano piano la corazza inscalfibile di Ryan Bingham mostra le sue crepe, fino a fargli abbassare le difese e mettersi in gioco. Ryan Bingham non è più tra le nuvole, è finalmente sceso a terra, con tutti i rischi che ciò comporta.
Jason Reitman, al suo terzo lungometraggio, dimostra ancora una volta di essere un artista che sa districarsi degnamente tra i generi, di saper costruire commedie dal retrogusto amaro che toccano importanti temi sociali indagando la superficie – non oltre, ma in modo solido e realistico – delle angosce esistenziali di protagonisti brillanti e apparentemente spensierati. Così fu per Thank you for smoking e per Juno, e costante resta il marchio di fabbrica anche in Up in the air, opera che tocca apertamente un tema attuale, doloroso e senza dubbio tragico come quello del licenziamento senza giusta causa, problema ancor più esteso nei democraticissimi Stati Uniti che nella vecchia Europa. Molto più efficace, in questo, che i tanti documentari ideologici di Michael Moore e compagnia cantante, Up in the Air mescola volti tesi, scioccati, spaesati, depressi e disperati di attori e licenziati reali, in un turbinio di fotogrammi che ci accolgono sin dall’incipit e che tornano a intervallarsi con i viaggi del protagonista per tutto l’arco della pellicola.
Reitman è abile a diluire l’angosciante tematica attraverso la stralunata verve del protagonista, e a costruire una storia agrodolce che certo – come consuetudine della classica commedia americana – chiude su note edificanti e un pochino buoniste ma ha il pregio di metterci di fronte alla realtà dura e cruda, pur trasfigurata e metaforizzata attraverso il genere. Il punto di forza che genera questo piacevole equilibrio tra serio e faceto è certamente la sceneggiatura, firmata dal regista e da Sheldon Turner, nella quale spiccano dialoghi taglienti e divertenti che incontrano e si amalgamano perfettamente a tempi filmici la cui costante è sicuramente l’incedere brioso. Reitman, a questo proposito, col precedente Juno aveva già dimostrato di saperci fare, pur in quel caso affidando interamente la scrittura all’ex spogliarellista ora affermata sceneggiatrice Diablo Cody (vinse addirittura l’Oscar).
A supportare i brillanti dialoghi c’è l’indovinata scelta di un cast che affida finalmente a George Clooney un ruolo a lui del tutto congeniale (cosa che, al contrario, non sono mai riusciti a fare i fratelli Coen, ma non solo loro), in cui può sfoderare con la giusta misura il suo sorriso da novello Cary Grant, ma che soprattutto trova nelle due attrici co-protaganiste un ulteriore punto di forza della pellicola. Diversissime tra loro, Vera Farmiga e Anna Kendrick lasciano molto di sé nell’ottima resa del film, rubando spesso la scena alla popolarissima star hollywoodiana. Da Juno Reitman recupera anche Jason Bateman, e in un piccolo ma significativo cammeo il sempre bravo J.K. Simmons.
Pur nella sua palese riuscita, e nel suo incontrare il gusto della critica come del pubblico, Up in the Air è un film più costruito e meno spontaneo del precedente Juno, il cui pregio più evidente era una struttura sia visiva che narrativa più frizzante affidata all’estemporaneità e alla freschezza dei dialoghi. Qui è tutto più in stile perfetta confezione hollywoodiana, ancorché di pregevole fattura. Quello che resta è decisamente una bella commedia, e una tema estremamente attuale su cui è odiernamente costretto a confrontarsi il così detto “globo civilizzato”: fuori dalla leggerezza e dalle risate intelligenti rimane una realtà scottante, tanti volti sfuggenti che la memoria del potere costituito cancella in fretta nel nome dello sviluppo sostenibile, del progresso e del benessere, privando gli uomini di ogni dignità e lasciando le loro famiglie in situazioni che definire precarie è solo un feroce e sconcertante eufemismo. Un’ opera da vedere, dunque, per divertirsi e per meditare.
Federico Magi, febbraio 2010.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Jason Reitman. Soggetto: tratto dal romanzo Up in the Air di Walter Kirn. Sceneggiatura: Sheldon Turner, Jason Reitman. Direttore della fotografia: Eric Steelberg. Montaggio: Diana E. Glauberman. Scenografia: Steve Saklad. Costumi: Danny Glicker. Interpreti principali: George Clooney, Vera Farmiga, Anna Kendrick, Jason Bateman, Danny McBride, Melanie Lynskey, J.K. Simmons, Steve Eastin, Chris Lowell, Adam Rose, Lauren Mae Shafer, Doug Fesler, Dave Engfer, James Anthony. Musica originale: Rolfe Kent. Produzione: Ivan Reitman, Jason Reitman, Jeffrey Clifford e Daniel Dubiecki per The Montecito Picture Company, Rickshaw Productions. Titolo originale: “ Up in the Air”. Origine: USA, 2009. Durata: 108 minuti.
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