Soffia forte il vento dell’est. Il cinema rumeno fa incetta di premi all’ultimo Festival di Cannes aggiudicandosi, a sorpresa, nientemeno che la Palma d’Oro. Sorpresa perché l’opera in questione, 4 mesi 3 settimane 2 giorni, è costata appena 800.000 dollari ed è stata girata in un tempo da record. E poi è una pellicola rumena, figlia d’un Paese la cui tradizione cinematografica è prossima allo zero. Eppure a Cannes non solo ci si è innamorati – si dice – da subito di questo film, ma si è anche premiata come vincitrice, nella sezione “Un certain regard”, un’altra pellicola rumena: California Dreamin’. Inutile immalinconirsi pensando che l’attuale cinema italiano è cosi scialbo, provinciale e sostanzialmente assente dai grandi palcoscenici; meglio prendere atto, facendo esercizio di ragione, che il suo è un progressivo scendere nella considerazione dei più importanti festival internazionali. Inutile perché al cinema italiano mancano idee e storie, mentre al contrario cinematografie di confine, come quella rumena, per l’appunto, hanno il coraggio di rischiare trasportando sullo schermo vicende anche molto dure, cercando anche meno consuete cifre stilistiche. Vicende che hanno l’ulteriore pregio di fare i conti con la propria storia patria in modo credibile, cosa che raramente da noi avviene .
È il caso di questa interessante opera di Cristian Mungiu, ambientata in Romania nel 1987, durante la dittatura comunista (il tristemente noto regime di Ceausescu), due anni prima dell’evento epocale: l’abbattimento del Muro di Berlino. In Romania, dal 1966, l’aborto viene proibito per volere di una legge voluta da Ceausescu per incentivare le nascite nel tentativo di ampliare la popolazione ed educarla secondo i rigidi precetti del socialismo reale. Due giovani amiche, Otilia e Gabita, conviventi nella stessa stanza del dormitorio universitario di Bucarest, riescono con qualche difficoltà ad affittare una camera d’albergo per tre giorni. Sono in cerca di un posto sicuro: Gabita è incinta e Otilia si offre di aiutarla ad abortire. Come? Prima di tutto procurandosi il denaro per pagare, oltre alla stanza d’albergo, un certo signor Bebe, poco costoso esecutore di aborti clandestini. Gabita però ha fatto molta confusione, ingannando anche l’amica, allorché, nel contrattare col signor Bebe aveva detto di essere incinta da circa due mesi. L’uomo, tutt’altro che sprovveduto, si accorge subito che i mesi sono almeno il doppio, cosi rifiutandosi di commettere ciò che la legge prescrive come omicidio. Ma non è un problema etico, Bebe è tutto fuorché un filantropo, vuole solo molti più soldi. Disperate, le ragazze promettono che li rimedieranno, senza comunque riuscire a convincerlo. L’unica è pagare in natura, coi propri corpi. E che aborto sia, allora: ovviamente non per raschiamento, sarebbe improbabile in una camera d’albergo. Non si devono lasciar tracce. Il modo scelto, come vedrete, ha un che di barbarico, mirando a far espellere il feto direttamente dall’utero della donna. È una inevitabile corsa contro il tempo nel tentativo di cancellare il feto dalla faccia della terra, che vedrà Otilia protagonista tra dolore, angoscia e disillusione. Sulle rovine esistenziali e materiali di un regime in evidente decadenza.
Non c’è che dire, 4 mesi 3 settimane 2 giorni è una pellicola che non lascia indifferenti, che cerca vicinanza con l’etica-estetica del cinema dei fratelli Dardenne, trovando però nella cifra stilistica e nei dialoghi un punto di forza che alla produzione dei famosi fratelli del cinema belga non sempre è possibile riconoscere. E parlando dello stile di regia, orientato all’essenzialità, pare evidente l’interiorizzazione dei parametri tipici del cinema “dogmatico” nordeuropeo. È un’opera cruda e asciutta, lontana dai sentimentalismi e da qualsivoglia retrogusto consolatorio, quasi interamente girata con la camera a mano. Vincono i colori pallidi, le ambientazioni spoglie, la desolazione figlia di un regime che Mungiu non mostra mai in volto ma che aleggia terrificante in ogni singola inquadratura. L’effetto angoscia-impotenza è restituito dal regista rumeno attraverso lunghissimi piani sequenza che sono quasi dei fermo immagine: il quadro visivo è scalfito esclusivamente dal tremolio della camera a mano. La macchina da presa privilegia spesso la complessità del campo visivo, facendo retrocedere le protagoniste a ornamento di una desolazione vivente sempre claustrofobica, anche in spazi aperti. E difatti Mungiu, con la sua camera a mano, segue costantemente Otilia di spalle, addirittura perdendola in campo lungo in un paio di occasioni, lasciando un quadro fatto di vuoto e persistente desolazione all’angosciato spettatore. Cosi che l’ansia e la tensione ci arrivino sempre, dalla prima all’ultima sequenza: fortissime nelle scene d’interno nella camera d’albergo, quasi insopportabili nell’inquadratura prolungata del feto espulso.
È un film concepito per sottrazione, dove l’assenza di deflagrazioni emotive, perfettamente in linea con la cifra stilistica, mira a provocare un dolore sordo, compassato, trattenuto. La scelta di non mostrare mai il volto del mostro (il regime di Ceausescu), né la mercificazione dei corpi – facendo intuire lo squallore attraverso i dettagli -, è orientata a far lievitare le ansie di chi guarda, cercando in sostanza un’emozione inesplosa che incontra la riflessione: da provare a mente fredda. A caldo, vi dico sinceramente, in alcuni frangenti può anche venir voglia di fuggire dalla sala. E non perché il film non funzioni, ci mancherebbe altro, ma per una sorta di insostenibile pesantezza dell’essere che, ve ne renderete presto conto, è improbabile non venga a farvi visita. Ottime anche le prove delle attrici, con menzione d’obbligo per la brava Anamaria Marinca, la quale trova una misura rimarchevole che dona evidente credibilità al personaggio interpretato. Ultima nota per i dialoghi, davvero intelligenti, taglienti e articolati in modo da non alterare l’essenzialità dello stile proposto.
Dicevamo sorpresa, al principio, ma a pensarci bene, avendo registrato la fortuna che in passato ha trovato a Cannes certo cinema (i già citati Dardenne con Rosetta, ad esempio, vincitori della Palma d’Oro), proprio clamorosa non la si può definire. Certo è, e questo lo sappiamo dalle cronache, che la giuria è rimasta folgorata dalla visione di questo film, tra i primi presentati in rassegna: si dice che, mancando ancora un buon ottanta per cento di opere da visionare, i giurati fossero quasi tutti concordi nell’immaginarlo come vincitore. Ovviamente il tema centrale non è l’aborto, come potrebbe sembrare, ma l’orrore delle vite eternamente soggette a controllo, figlie d’un regime che partoriva uomini somiglianti a zombie, a fantasmi, a inconsapevoli marionette. Di qui la scelta di Mungiu di usare toni, colori e inquadrature che evocano grigiori, angosce e desolazione. Di là da ciò si può fare una considerazione di più ampio respiro, visto il tema e l’ambientazione proposta dal film del regista rumeno. Cominciano a circolare con una certa frequenza, da un po’ di anni a questa parte, film ambientati in paesi e in contesti sottomessi dalla dittatura comunista esteuropea, ricevendo anche importanti premi (recentissimo il caso del tedesco, ambientato nell’ex DDR, Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck, premiato con l’Oscar per il miglior film straniero). A questo proposito, emblematica è una considerazione del regista rumeno sulle sensazioni da lui provate sotto il regime di Ceausescu: “Vivevamo vite più o meno normali, anche se avevamo problemi economici, le cose di tutti i giorni si trovavano soltanto al mercato nero. Noi giovani non sentivamo neanche l’assenza di libertà. Questo forse è l’aspetto più grave del comunismo”. Sembra che tale affermazione dica tutto, e anche di più. Un film da vedere, una pellicola dura e a tratti disturbante. Alla larga chi è in cerca di leggerezza e buoni sentimenti.
Federico Magi, agosto 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Cristian Mungiu. Soggetto e sceneggiatura: Cristian Mungiu. Montaggio: Dana Bunescu. Fotografia: Oleg Mutu. Interpreti principali: Anamaria Marinca, Vlad Ivanov, Laura Vasiliu, Alexandru Potoceanu, Ion Sapdaru, Teodor Corban, Tania Popa, Cerasela Iosifescu. Scenografia: Mihaela Poenaru. Costumi: Dana Istrate. Produzione: A Mobra Flms Prduction, Saga Film. Titolo originale: “4 luni, 3 saptamini si 2 zile”. Origine: Romania, 2007. Durata: 113 minuti.
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