Ho letto questo romanzo perché me l’ha consigliato un’amica. Tra l’altro, un’amica che è in Vibrisselibri. Me lo sono scaricato e l’ho letto. Nonostante avessi chilometri di pregiudizi. E pure curiosità. Curiosità. Non leggo molti libri di donne, sono in netta minoranza nelle mie letture, senza che ci sia in effetti un motivo particolare, ogni volta che mi è capitato di leggerne sono rimasto ben soddisfatto da quel che avevo letto, solo che entrando in libreria, e alla fine trovandomi a scegliere, ecco che scelgo un qualche autore, e non una qualche autrice. E dire che per qualche tempo mi sono letto la Yoshimoto, forse l’unico caso, per me, di lettura femminile che si è ripetuta. A parte quella su internet. Nelle mailing list in cui sono iscritto. Non so perché. Ogni tanto mi riprometto di leggere più opere di donne, e magari ne leggo una e poi mi fermo. E così via, vado avanti in questo modo. Ma i chilometri di pregiudizi non sono questi, riguardavano invece la lettura sullo schermo, che dopo un po’ mi stanca, e sopratutto il fatto che questo romanzo venisse presentato come romanzo-verità. Questa cosa mi ha dato molto fastidio, e continua a darmela tutt’ora. L’accostamento della parola “verità” alla parola “romanzo” mi mette i brividi. La forma romanzo per me legata a doppia mandata con il termine “finzione”, piuttosto che altri. E non perché i fatti che vi si possono narrare siano più o meno effettivamente accaduti, o siano stati vissuti esattamente nel modo in cui sono scritti, ma per il motivo che “verità” toglie qualcosa al “romanzo”. Sui “romanzi” si può discutere, le nostre opinioni possono divergere, posso considerare buono ciò che per altri non lo è e viceversa, posso esporre le mie idee e riceverne altre, valide allo stesso modo. Ma su “verità” cosa posso dire? Faccio il relativista e dico che quella è la sua verità, non la mia, che esistono tante verità quante ne possiamo scrivere, e la parola “verità” è una questione che riguarda più la mia coscienza che non gli altri. Scrivere di un romanzo che è un “romanzo-verità”, presentare qualcosa in questo modo, a me non è andato giù. Avrei preferito allora “autobiografia romanzata”, per dire. Certo, “romanzo-verità” è più d’impatto, come negarlo? A chi può importare di una “autobiografia romanzata” se non è di una persona già ben nota? Invece di un “romanzo-verità”…la cosa è diversa. Forse è una prassi editoriale, non so. Forse si è voluto dare importanza alla scrittura, che con “autobiografia romanzata” certo non avrebbe avuto. Per l’impressione che dà, ecco. Si è seguito l’impressione. “Romanzo-verità” per me toglie sia a “romanzo”, che a “verità”. Un buon romanzo ci dice sempre qualcosa che sentiamo vero, anzi, solo i buoni romanzi li sentiamo veri. Così, invece. Così ho cominciato a leggerlo con questi chilometri di pregiudizi.
La scrittura corre, e corre veloce. I capitoli sono tutti brevi, o molto brevi, ne finisci uno e cominci l’altro, ti dici, spengo il computer dopo questo, e continui. Avviene tutto in modo naturale.
Hai divorato un terzo del libro senza accorgertene. Quaranta pagine a fila incollato allo schermo. Chiudi e pensi, “Romanzo-verità”. Ti viene voglia di buttare questa unione nel cestino e non recuperarla mai più. Perché il libro ti prende, e senza quella parola te lo saresti goduto di più, mentre ora ci continuerai a fare i conti ogni volta che ti fermerai, perché ti sembrerà che ti abbia tolto qualcosa. Ed è vero che mi ha tolto qualcosa. E tutto il mio leggere è stato inficiato da questo pregiudizio. Quando ho finito di leggerlo, questo romanzo, mi è dispiaciuto. Mi è dispiaciuto perché avrei continuato. Mi è dispiaciuto perché di sicuro mi sono perso qualcosa. Mi è dispiaciuto perché la scrittura meritava “romanzo” da solo. La storia, che segue la formazione di una bambina nella Roma degli anni ’70, è scritta con un’impressione di naturalezza che colpisce. Le cose accadono, e così vengono registrate. Non è mancanza di sentimento, non è freddezza, tutt’altro. È un narrare non morboso, non voyeuristico, né tantomeno vittimistico. Questo ti rimane dentro, perché avverti distintamente le ferite, le cicatrici, il tempo che ci mettono per formarsi. La bambina subisce violenze, e ne fa, anche, nell’illusione che questo le restituisca qualcosa. Tana per la bambina coi capelli a ombrellone. Tana. La tana è un rifugio, chi ci arriva è salvo. Da noi quando si gioca non si usa questa parola, se ne usa un’altra, “bomba”. Ma questo ora non c’entra. Dicevo piuttosto della tana. Con i capitoli che sembrano nascondigli, sempre più vicini (e più pericolosi, dolorosi) alla tana. Tana che arriva per traumi, personali, familiari, dopo essere in qualche modo caduta dalla vita la protagonista ci giunge. La vita è quella che ha vissuto, e che vivrà. Quella con cui, infine, si riesce a fare i conti senza farsene schiacciare. Che quando ci schiaccia non è vita. È altro.
Questo romanzo è un bel romanzo. Che si fa leggere con passione, con trasporto. Che ci racconta qualcosa. Nel mio caso mi narra cose distanti, per il tempo in cui sono accadute e per i luoghi, ed altre vicine, la composizione familiare numerosa. È un libro intriso del tempo e della società che racconta, che altre persone avranno vissuto in maniera diversa, in cui alcune si ritroveranno ed altre diranno il contrario. Ah, potrei anche dire che la scrittrice usa periodi perlopiù brevi, et similia. Ma direi poco. Quasi niente. Poi, non le so fare queste cose. Ma è un libro da leggere, e che ognuno scopra qual è il suo.
(su Lankelot il 27 giugno 2007) ab
Edizione esaminata e brevi note
Monica Viola è nata a Roma l’anno in cui nasceva il beat. Ci abita ancora, infelicemente impiegata. Questo è il suo esordio narrativo.
Monica Viola, Tana per la bambina con i capelli a ombrellone, ed. VibrisseLibri, 2007
Il romanzo, prima scaricabile dal sito vibrisselibri, poi pubblicato da Rizzoli nel 2008 è ora fuori catalogo.
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