Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te. Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male.
Maschere, volti, allucinazioni, simbolismi, inconscio. Teatro, autobiografia. Cinema: finzione. L’ora del lupo è quel tempo interminabile, per chi teme il sopraggiungere del buio, compreso tra le due e le cinque del mattino, il frangente in cui si palesano i fantasmi e nel quale è impossibile trovare il sonno. L’unica possibilità è tenere gli occhi aperti, avvicinando alle pupille la luce di un fiammifero che si consuma velocemente. E poi un nuovo fiammifero, e ancora un altro: stessa sorte, fino all’alba. Due occhi inquieti, quelli di Alma (Liv Ullmann), sorvegliano preoccupati quelli del marito Johan (Max von Sydow), persi in un universo di depressione e logorati da fantasmi vecchi e nuovi. Fantasmi di ritorno, di un amore perduto, si mescolano a mostri cannibali, ragni, figure grottesche e ad un bambino. Una coppia che evita il contatto; un amore, forse consumato e ora perduto, assente, lontano. Eppure Alma prova a comprendere, cerca vicinanza, trovando invece l’immedesimazione. I mostri e i fantasmi diventano anche suoi, aggravano i silenzi, amplificano ulteriormente uno spazio già dilatato, partoriscono incomunicabilità e solitudine. L’arte, il teatro, le marionette, Il flauto magico mozartiano, i dipinti che lo spettatore non vede e ancora i fantasmi: Johan è un pittore assai noto, misantropo – o divenuto tale – nonostante la vicinanza; è lontano dal mondo, soprattutto da Alma. Le ore notturne materializzano il mondo inconscio che lo divora, un mondo di orrori onirici che si fanno reali. Che tormentano, trasformano, annientano, fino alla morte.
Girato appena dopo Persona, uno dei suoi indiscussi capolavori, L’ora del lupo è un viaggio agli inferi terrificante che dà modo a Bergman di mimetizzare, in un universo criptico e simbolico, numerose suggestioni contenute nei suoi precedenti lungometraggi. Tratto da un’opera teatrale scritta – o cominciata a scrivere nel 1962, non essendo chiaro se sia stata mai terminata – dallo stesso maestro svedese (dal titolo eloquente: Gli antropofagi), il film in questione è finzione allo stato puro, ammessa e rivendicata fin dalle prime sequenze. La storia ci viene narrata da Alma, cui Bergman fa rievocare, attraverso un infinito flashback, le angosciose vicende che la videro, suo malgrado, protagonista. Dopo una brevissima introduzione, la pellicola sembra evidenziare, grazie alle atmosfere cupe e alla tematica di superficie, un soggetto dalle venature horror. È inganno, depistaggio, apparenza che cela i dubbi esistenziali che ossessionano il regista: la crisi di coppia dovuta all’incomunicabiltà, i traumi del passato, il logorio emotivo dell’artista estraneo al tempo che lo ospita, l’ossessione riprodotta attraverso l’arte. Tutto molto autobiografico: i film bergmaniani sono ispirati sempre da personalissime ossessioni che si fanno sovente arte sublime, ancorché difficile da restituire. Come in questo caso, perché Bergman, nella fattispecie, non cerca affatto l’empatia, il feedback dello spettatore, costruendo personaggi che si muovono in un universo dominato da simboli davvero disorientante ma quanto mai affascinante. Quanto più il film si fa criptico e labirintico, tanto più si è rapiti, quasi ipnotizzati dalla vicenda narrata; una vicenda lontanissima dal ritmo e dalla consecutio lineare, affollata dai silenzi, dai volti, da un’ossessione immateriale che si insinua malefica nello spettatore. La pellicola non regala che pochissime voci, quasi mai dialoganti, vive di silenzi e di brevi e azzeccati monologhi. Volti sofferenti che ci parlano, cercando consapevolezza, aderenza ad una realtà oramai intrappolata nel mondo onirico e spettrale – come nel caso di Johan, rivolto ai fantasmi che non danno pace: “Grazie a voi ho raggiunto il limite. Lo specchio si è spezzato. Cosa riflettono i frantumi? Sapete dirmelo?”. Si chiude su un primo piano della Ullmann che emerge dal buio, in cui Alma, il suo personaggio, ci mette a parte di dubbi e angosce esistenziali maturate dalla tragica esperienza vissuta: ha scrutato nell’abisso e l’abisso ha messo in lei le sue radici. Su un registro simile il maestro svedese si mosse anche nel concepire opere successive come Il rito, L’immagine allo specchio e Un mondo di marionette, quasi a voler ricordare che il suo cinema esistenzialista ha conosciuto diversi modi rappresentazione e diverse chiavi di lettura.
Ottime le prove degli attori, raffinata la fotografia in bianco e nero del compianto Sven Nykvist (deceduto pochi mesi fa), quanto mai suggestiva nel dar vita a questa inquietante allucinazione bergmaniana che scava nell’inconscio attraverso gli archetipi del terrore (un castello, gli spettri, il mescolarsi di realtà e finzione, sogno ed incubo), trasformando in fantasmi viventi le angosce dell’artista misantropo – Bergman stesso, il disadattato per eccellenza. Il risultato è una pellicola straniante, tra le meno note di Bergman, riesumata in Dvd da poco, probabilmente per i soli amanti. Immagino che, salvo particolari curiosità cinefile, sarà comunque trascurata: da coloro che, evidentemente, non ne verranno mai a conoscenza, dai non amanti del maestro svedese e dai fuggevoli visitatori del sito i quali, trovandosi a leggere questo mio scritto, saranno vinti da un’improvvisa voglia di leggerezza e di commedia. Eppure, nonostante le doverose riflessioni in merito, questo Bergman “delirante” e nascosto ci regala un’opera fascinosa, cinema per veri amanti. Se vi trovate a compiere la piccola impresa di vederlo per intero (per i neofiti del Nostro, difatti, è probabile arrivi in fretta la noia), scoprirete una perfezione stilistica e una geniale visività che si fa narrazione per sole immagini – a dispetto di uno scritto volutamente poco comprensibile –, altrove difficilmente riscontrabile. Forse il Bergman più allucinato, certamente il più allucinante.
Federico Magi, novembre 2006.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Ingmar Bergman. Soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. Direttore della fotografia: Sven Nykvist. Montaggio: Ulla Ryghe. Scenografia: Marik Vos-Lundh. Costumi: Mago (Max Goldstein). Interpreti principali: Max von Sydow, Liv Ullmann, Ingrid Thulin, Erland Josephson, Gertrud Fridh, Bertil Anderberg, Gudrun Brost, Georg Rydeberg, Ulf Johansson, Naima Wifstrand, Lenn Hjortzberg, Mikael Rundquist, Folke Sundquist. Musica originale: Lars Johan Verle. Titolo originale: “Vargtimmen”. Origine: Svezia, 1966 (ma uscito nel 1968). Durata: 90 minuti.
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