Ostello Willy Wallace, Stirling, 17 Agosto 2016
La mattina consumiamo una rapida colazione e poi c’incamminiamo verso la stazione degli autobus di Edimburgo. In poco meno di un’ora arriviamo a Stirling, nell’entroterra scozzese. Il traffico è intenso già a quest’ora ma una volta usciti dal centro l’autobus corre veloce. Intorno a noi un paesaggio verdissimo interrotto solo da numerosi campi di grano e dolci colline ondulate. L’autostrada passa di fianco a The Kelpies, nei pressi della città di Falkirk: un monumento composto da due impressionanti teste di cavallo d’acciaio alte trenta metri. Il nome deriva dai leggendari mostri che secondo le leggende vivono nei laghi scozzesi ma sono state costruite come omaggio ai cavalli che in passato, prima dell’invenzione del treno, trainavano le chiatte lungo il canale che passa per Falkirk.
A Stirling troviamo facilmente l’ostello, al quarto piano di un vecchio palazzo a pochi minuti dalla stazione degli autobus. La sala comune e la cucina sono molto accoglienti e arredate con uno stile vagamente retrò. Per stanotte staremo in una camerata da ben sedici letti, ma quando entriamo non c’è ancora nessuno. Facciamo una rapida sortita al vicino supermercato per procurarci il pranzo e la cena. Per il primo anche oggi optiamo per un economico panino, per la seconda invece cediamo alla tentazione e compriamo della pasta. D’altronde è risaputo che l’autonomia media di un italiano senza pasta è di circa tre giorni.
Mangiamo nella sala comune dell’ostello e poi siamo finalmente pronti per cominciare la visita della città. Stirling è forse il luogo che più rappresenta la secolare lotta scozzese per l’indipendenza: il castello e la città vecchia si trovano sulla cima di un vecchio vulcano, una posizione che per lungo tempo ha reso la città difficilissima da espugnare, non a caso un detto locale recita “chi controlla Stirling controlla la Scozia”.
Qui vicino furono combattute le due più importanti battaglie della storia scozzese: la prima, quella di Stirling Bridge, avvenne nel 1297, e vide il condottiero William Wallace guidare l’esercito scozzese alla vittoria contro il ben più numeroso esercito inglese. Per chi ha visto il film Braveheart, si tratta della battaglia in cui gli scozzesi alzano il kilt mostrando le terga all’esercito inglese. La seconda invece ebbe luogo nel 1314 a Bannockburn, poco fuori Stirling. Stavolta fu un altro condottiero, Robert the Bruce, che con il suo esercito sconfisse gli inglesi, permettendo così la nascita del regno di Scozia.
Queste due figure storiche sono tuttora tra le più celebrate in Scozia e a questo contribuisce certamente il fatto che i due si conobbero ed ebbero modo di combattere insieme per la causa comune: William Wallace nacque nel 1270 e diventò presto il comandante di una rivolta popolare che per diversi anni procurò molti fastidi agli invasori inglesi. Grazie alla vittoria nella battaglia di Stirling, William Wallace venne nominato cavaliere e guardiano di Scozia proprio da Robert the Bruce, il legittimo erede al trono. Sfortunatamente solo l’anno dopo, gli inglesi, guidati dal Re Edoardo I, ottennero la rivincita nella battaglia di Falkirk. Wallace fu costretto a fuggire in Europa alla ricerca di sostenitori per la causa scozzese. Tornò in patria nel 1305 ma venne tradito da alcuni nobili. Gli inglesi lo catturarono e lo portarono a Londra, dove venne processato e condannato a morte.
Anni dopo questi fatti, nel 1314, l’esercito scozzese guidato sempre da Robert the Bruce, sconfisse gli inglesi a Bannockburn, partendo anche in questo caso da una situazione di netta inferiorità numerica. Quella vittoria gli permise di assicurare l’indipendenza militare e politica della Scozia e di regnare fino alla sua morte nel 1329. Le gesta di quella battaglia sono ricordate nella famosa canzone scozzese The Flower of Scotland, che viene suonata come inno prima delle partite delle nazionali sportive scozzesi. A parte una splendida melodia che personalmente mi piace molto, il testo non lascia molto spazio ad interpretazioni:” E si alzarono contro / l’esercito del fiero Edoardo / rimandandolo a casa / a ripensare ai suoi errori.”
Una strada in salita porta verso la città vecchia e il castello. Qui si trovano le mura cittadine, costruite verso la metà del XVI secolo per difendere la città dall’assedio di Enrico VIII d’Inghilterra, il quale voleva costringere Mary Stuart a sposare suo figlio per unificare così le corone dei due regni. Questo sfociò in una serie di conflitti passati alla storia come Rough Wooing, il rude corteggiamento. Poco prima del castello troviamo la bella Church of The Holy Rude: da oltre seicento anni è la chiesa parrocchiale di Stirling e nel 1567 ospitò anche l’incoronazione di re Giacomo VI. Un opuscolo all’entrata spiega che fino al 1936, esisteva un muro che divideva la chiesa in due, a causa di profonde divergenze all’interno della comunità dei fedeli.
L’interno è molto luminoso, anche grazie alle grandi e coloratissime vetrate che lanciano bizzarri riflessi sul pavimento. Il tetto di legno è quello originale del Medioevo e nell’insieme si tratta di una gran bella struttura.
Fuori dalla chiesa c’è un grande cimitero: le lapidi sono tutte in pietra e creano un bellissimo contrasto con l’erba verdissima e curatissima. Alcune di queste sono storte e danno un tocco gotico al tutto. Un paio di grandi alberi completano l’atmosfera. Proseguiamo verso il castello ma deviamo prima, adesso è ancora presto e non vogliamo visitarlo nel momento di massimo affollamento della giornata. Ci passiamo quindi di fianco e visitiamo il parco pubblico là vicino. Questo si sviluppa intorno ad un’altra collina, Gowan Hill ed è attraversato da una serie di sentieri. La vegetazione è rigogliosa, un vero e proprio bagno nel verde. Sulla sommità troviamo due vecchi cannoni e la beheading stone: una pietra sulla quale un tempo venivano eseguite le decapitazioni. Oggi è conservata sotto una spessa gabbia metallica, forse per evitare che qualcuno voglia reintrodurre le vecchie usanze. Da qui si ha una bellissima visuale sulla campagna intorno a Stirling e si vedono anche i ponti che attraversano il fiume Forth. Fu esattamente là che venne combattuta la battaglia di Stirling: William Wallace aspettò che l’avanguardia inglese attraversasse il ponte e poi attaccò, tagliandogli così ogni via di fuga. Vedendo la disfatta dell’avanguardia e non avendo lo spazio sufficiente per far entrare in azione la cavalleria pesante, l’esercito si ritirò.
Più in lontananza si vede anche il National Wallace Monument, il monumento al grande condottiero scozzese: una bizzarra torre in stile gotico costruita sulla sommità di una rupe. Scendiamo e raggiungiamo il fiume per vedere da vicino uno dei ponti. L’acqua è molto scura e la corrente molto debole, sembra quasi che non si muova.
Torniamo indietro e finalmente saliamo fino al castello: un grande parcheggio fa da anticamera al ponte levatoio che passa sopra ad un fossato ormai vuoto. Questo castello venne costruito tra il XIV e il XVI secolo, periodo in cui era pure la residenza dei sovrani Stuart. Il castello comprende molte sezioni ed ognuna è stata adibita per illustrare al visitatore un diverso aspetto della vita nel castello. Ci sono moltissime attività interattive perfette per i bambini ma simpatiche anche per gli adulti, nonché un breve ed interessante filmato che spiega nei dettagli la storia del castello. Le stanze del Royal Palace, dove risiedevano i vari monarchi, sono state restaurate di recente: lo scopo era espressamente quello di riportarle al loro stato originale, ma a parer mio il risultato le ha rese troppo appariscenti: i colori sono troppo vividi e i muri troppo puliti, sembra quasi di trovarsi dentro un parco divertimenti a tema. Visitiamo le stanze dove vivevano il re e la regina, il salone in cui venivano ricevuti gli ospiti ed un paio di terrazze da cui si ha un bellissimo panorama. In ogni stanza ci sono dei figuranti, vestiti con abiti d’epoca che raccontano ai visitatori aneddoti sul castello o semplicemente spiegano cosa succedeva in quella particolare stanza. Sono molto sorpreso da questa grande organizzazione: in questo modo la visita diventa molto più interattiva e stimolante e aiuta il visitatore ad andarsene avendo effettivamente imparato qualcosa.
Passeggiamo con calma lungo i bastioni e ci godiamo la fresca aria del tardo pomeriggio. Ritorniamo all’ostello per rilassarci qualche ora. Per cena cuciniamo una pasta che condiamo con un sugo pronto preso al supermercato. La sera usciamo, il nostro obiettivo è trovare un pub dove rilassarci con una pinta e magari ascoltare un po’ di musica tradizionale. Entriamo nel Settle Inn, il pub più antico della città (aperto nel 1733) ma di certo non il più grande: quando entriamo vediamo sulla destra il bancone e sulla sinistra quattro tavoli davanti ad un bel caminetto. Davanti a noi una porta introduce in una seconda stanza con un basso soffitto a botte e neanche una finestra. Proprio da questa seconda stanza proviene della musica: non è una semplice canzone suonata da un paio di strumenti, ma una melodia prodotta da una vera e propria orchestra. Ci affacciamo e vediamo che più della metà dei posti disponibili sono occupati da un gruppo di amici che stasera si sono ritrovati qui per suonare: quattro violini, due banjo, un basso, due fisarmoniche, tre chitarre, un clarinetto, un flauto traverso più altre cinque persone senza strumento che cantano a turno.
Restiamo a bocca aperta: questa è praticamente la materializzazione di quello che andavamo cercando stasera. Ci affrettiamo a prendere due pinte di birra e poi ci sediamo in un angolino della stanza, di fianco ad una coppia di spagnoli e a due signore che fanno parte della banda e che cantano.
Il funzionamento di questo gruppo è affascinante: una volta finita una canzone, senza dire una parola, qualcuno ne comincia un’altra e gli altri lo seguono. Può succedere che a cominciare sia uno strumento, ma capita pure che sia uno dei cantanti. Molte canzoni sono solo strumentali e assomigliano molto a quelle che si possono trovare nei dischi dei Dubliners, famoso gruppo irlandese con cui sono cresciuto e che ancora ascolto con piacere. Non conosco la maggior parte delle canzoni, ma ogni tanto ne capita qualcuna di familiare: la prima è Caledonia, scritta dallo scozzese Dougie McLean. Una canzone malinconica sulla nostalgia per la propria terra natia e che fa venir voglia di partire e andare lontano solo per poterla ascoltare e provare le stesse sensazioni dell’autore. Poco dopo arriva una delle mie preferite, Roisin the Bow: una tipica drinking song, canzone da pub da cantare con la pinta in mano, il cui tema è l’addio ad un suonatore di violino, non si sa se uomo o donna, che sta per morire e che di conseguenza invita a bere alla sua memoria. L’ultimo verso della canzone dice: “And I lift up me glass in his honor: take a drink with Roisin the Bow”, cioè “E alzo il mio bicchiere in suo onore: bevo con Roisin the Bow”. Ed è qui che tutta la banda alza il bicchiere cantando a squarciagola. Quasi mi commuovo per la felicità, fin da piccolo ho desiderato poter cantare canzoni come questa in un pub.
Tra una canzone e l’altra Elena ha fatto amicizia con le due signore del gruppo che sono sedute vicino a lei. Sono molto gentili e quando vengono a sapere che siamo italiani insistono per farci cantare qualche canzone tradizionale italiana. Questo mi fa realizzare che ne conosco veramente poche e mi crea un certo imbarazzo: le uniche idee che mi vengono in mente sarebbero Bella Ciao, o Fischia il Vento, o al limite Il Pescatore di De Andrè. Purtroppo però sia io che Elena abbiamo poca dimestichezza con il canto e quindi decliniamo l’offerta. Vista la nostra poca collaborazione le due signore gridano qualcosa ad uno dei violinisti e con nostro sommo stupore la banda intona Bandiera Rossa: le strofe sono in inglese ma il ritornello è in italiano: ”Bandiera rossa la trionferà, viva il comunismo e la libertà”. Mi affretto a fare un video perché altrimenti nessuno ci crederà a casa.
Siamo ancora in preda allo choc quando una signora di colore seduta vicino a me attacca uno spiritual, un genere da cui derivano il jazz ed il blues e che nacque dai canti degli schiavi neri in America. La sua voce è molto soul, la canzone è lenta e anche se non colgo tutto il testo sembra racchiudere in sé secoli di sofferenze ed ingiustizie. Scende un rispettoso silenzio mentre canta e alla fine vedo spuntare qualche fazzoletto tra gli astanti. La sessione continua con altre canzoni strumentali, nel frattempo alcuni membri della banda se ne sono andati e altri si sono aggiunti. Una delle due signore vicino Elena si lancia in una sua versione di Oh My Darling Clementine: una parodia di canzone romantica che appartiene alla tradizione americana e che parla della figlia di un minatore. Costei era molto conosciuta a causa dei suoi giganteschi piedi e purtroppo morì proprio a causa di una scheggia che le si conficcò in un piede, facendola così cadere in uno stagno dove annegò. Il suo triste amante si strugge e si dispera dal dolore, ma ritrova la pace quando bacia la sorella minore della povera Clementine, la quale ora se ne sta sottoterra a fertilizzare le piante del cimitero di fianco alla chiesa.
Non passa molto che la stessa signora attacca un’altra canzone: Both Sides of the Tweed, che parla dei difficili rapporti tra Inghilterra e Scozia. Il tono però è meno patriottico e più ottimista e alla fine l’augurio è che, nonostante i conflitti e le incomprensioni, l’amicizia e la tolleranza possano fiorire lungo entrambe le rive del fiume Tweed, che segna appunto una parte del confine tra i due territori.
Le due signore avranno entrambe sui sessant’anni ma, per dirla schiettamente, bevono come spugne. Da quando siamo arrivati hanno finito due pinte, più un altro cocktail, senza tra l’altro mai andare in bagno, infrangendo quella legge matematica per cui quando si bevono due pinte di birra poi se ne espellono almeno tre. Ma non sono le uniche, tutta la banda viaggia a ritmi alcolici piuttosto elevati, non fanno a tempo a finire un bicchiere che già ne ordinano un secondo e, pur avendo tutti in media sui sessant’anni, nessuno dà segni di stanchezza o di ubriachezza. Vanno avanti a suonare come se nulla fosse e io dopo due pinte sono già andato in bagno due volte e ho la palpebra che comincia a calare. Verso mezzanotte il violinista principale, che sembra essere il direttore della banda, intona la canzone finale: una ballata dal titolo Bound to Go, Destinato ad Andare, il cui ritornello recita così:”Bound to go, Bound to go / So farewell good people / We’re all bound to go”, “Destinato a partire, destinato a partire / Quindi addio brava gente / Siamo tutti destinati a partire”. Una conclusione perfetta per una serata tra le più belle della mia vita. Guardo l’orologio, è mezzanotte, quando siamo arrivati erano appena le nove.
Usciamo felici come due bambini a Natale. Sono le esperienze come questa che rendono unico ogni viaggio: non c’è bisogno di visitare i posti più famosi, più celebrati e più alla moda per vivere esperienze intense ed avere qualcosa da raccontare una volta tornati. Il senso di un viaggio può arrivare anche dai luoghi più inaspettati, da un anziano che ti racconta un aneddoto, da una scritta su un muro, da un piatto particolare o anche da un gruppo di amici che si ritrova al pub per suonare in compagnia.
Links:
https://it.wikipedia.org/wiki/Stirling
https://it.wikipedia.org/wiki/William_Wallace
https://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_I_di_Scozia
Francesco Ricapito Settembre 2016
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