Lee Chang-dong

Poetry

Pubblicato il: 2 Aprile 2011

Che senso ha oggi la poesia, in un mondo che ha progressivamente perso i significati reali delle parole e che non è più abituato a guardare veramente le persone, la natura e le cose? In questo tempo che va veloce e che fagocita fatti, parole ed emozioni con impressionante e noncurante rapidità c’è un regista coreano, Lee Chang-dong, che rivendica il diritto di interrogarsi ancora sul termine poesia, sul suo significato più profondo e recondito, sulla possibilità di guardare oltre la cosa in sé, di penetrarla per recuperare un orizzonte di senso certamente più prossimo alla natura umana in una società che sfugge con meschinità il dolore ed è dimentica delle piccole gioie che la vita può offrire. Poetry, poesia per l’appunto, è il titolo, quanto mai evocativo, di una sorprendente pellicola dell’estremo oriente premiata all’ultimo Festival di Cannes per la migliore sceneggiatura originale.

Mija (Yun Junghee) è una donna di sessantasei anni che vive con suo nipote, un ragazzo che frequenta il liceo in una piccola città di provincia, attraversata dal fiume Han, nella Corea del Sud. Mija è un’anziana pensionata, eccentrica e curiosa, che trae sostentamento economico da un sussidio e da qualche lavoretto come badante. Curiosità che la porta a frequentare un corso di scrittura poetica e, per la prima volta nella sua vita, a immaginare di scrivere una poesia. Mija allora va in ricerca della bellezza, anche in un ambiente marginale come quello in cui vive e al quale non aveva mai prestato attenzione. Aperta a guardare il mondo con diversi occhi, è pronta a cogliere ogni singolo frammento del nuovo universo che pian piano gli si svela. Questa sua disposizione, però, è messa a dura prova da una realtà che si fa improvvisamente insostenibile: quasi contestualmente, scopre di avere l’Alzheimer e viene a conoscenza di un gesto orribile di cui si è macchiato il nipote. La donna cercherà di ribellarsi a una realtà che sembra risucchiarla verso il basso, grazie alla disperata ricerca delle suggestioni che ispireranno il suo primo componimento poetico.

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Un’opera coraggiosa e ricca di fascino, forse eccessivamente didattica e non priva di qualche percettibile luogo comune, sincera nel voler toccare un tema importante e assolutamente in controtendenza come quello palesemente esplicitato dal titolo. Poetry è un dramma dalle atmosfere rarefatte, inesploso, che volutamente non deflagra. È una ferita aperta che genera un dolore sordo, evidenziato da piccoli versamenti che destabilizzano ma non piegano mai fino in fondo una donna che, sostanzialmente abbandonata a se stessa, cerca di sorreggere un mondo che sembra inevitabilmente destinato a crollarle addosso. La poesia è un’oasi, un rifugio, ma anche la possibilità di gettare lo sguardo oltre le nubi dense che l’assediano: “Viviamo in un’epoca in cui la poesia sta morendo. Alcuni ne sono dispiaciuti, altri la lascerebbero crepare senza alcun rimpianto. Fatto sta che c’è ancora gente che scrive poesie e gente che le legge – afferma il regista coreano – Cosa significa scrivere una poesia in questi tempi in cui la poesia è in declino? È questa la domanda che volevo porre agli spettatori, e da qui, una domanda che faccio a me stesso: cosa significa fare un film in questi tempi in cui il cinema è minacciato?”

Lee Chang-dong, con tutto il rigore necessario a non debordare nel sentimentalismo di maniera, si interroga sulla vita dell’arte nel mondo odierno utilizzando la poesia come ultimo avamposto di purezza estranea alla contaminazione del cinismo e dell’utilitarismo. Non a caso, il doloroso sottotesto che riguarda il suicidio della ragazzina violentata da un gruppo di coetanei rifugge qualsiasi morbosità estetica, per invece privilegiare l’agghiacciante pragmatismo con cui i genitori dei liceali coinvolti tentano di liquidare la vicenda. A restituire dignità a un’anima la cui vita sfortunata si è conclusa tra le acque quiete del fiume Han sarà proprio Mija, attraverso i versi che finalmente sgorgano liberi in un momento di totale estraneazione dalla difficile realtà che la circonda. Versi che concludono l’opera sulle immagini del volto sorridente della piccola, volutamente occultato da Lee Chang-Dong nella tragica sequenza iniziale per essere immortalato catarticamente nell’epilogo.

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Per qualcuno pretenzioso – e fors’anche presuntuoso -, vista la materia trattata e un titolo che è quasi un proclama estetico, una dichiarazione d’intenti che non ammette replica e che cerca un’ immagine potente, cristallina, certo impegnativa ma tutt’altro che pretestuosa, Lee Chang-dong, cinquantasettenne scrittore approdato alla regia cinematografica negli anni Novanta (tra le sue opere ricordiamo Il pesce verde, Caramella alla menta e soprattutto Oasis, la sua pellicola più premiata e coraggiosa), ha il pregio di cercare la contaminazione tra due arti che idealmente sono all’estremo opposto non soltanto temporale ma che, ad apprezzarle entrambe, ci accorgeremmo che vanno in cerca dei medesimi sommovimenti interiori. Voler restituire al termine poesia il suo significato ancestrale, ovvero l’arte di trasmettere un messaggio assonante scandito dal ritmo, dunque versi che restano e non semplici parole destinate a volare via col vento, è un’operazione ambiziosa ma al contempo così naturale che non si può non accoglierla con favore, pur se filtrata attraverso la metafora filmica. Poetry è pertanto un film per chi è in cerca di un cinema diverso, meno rutilante di ciò che siamo soliti vedere nelle sale e aperto alla riflessione e alla meditazione. Un’opera profonda e toccante, che ha il pregio di non cercare le lacrime a tutti i costi, pur non rinunciando ad emozionare.

Federico Magi, aprile 2011.

Edizione esaminata e brevi note

Regia: Lee Chang-dong. Soggetto e sceneggiatura: Lee Chang-dong. Fotografia: Kim Hyunseok. Montaggio: Kym Hyun. Interpreti principali: Yun Junghee, Lee David, Kim Hira, Ahn Naesang. Scenografia: Sihn Jeomhui. Costumi: Lee Choongyeon. Produzione: Pinehouse Film. Origine: Corea del Sud, 2010. Durata: 139 minuti.