“Lo spazio tra carnefici e vittime è una zona grigia, non è un deserto“, spiega Levi. E quella zona grigia, tutt’altro che desertica, è spesso popolata da individui che hanno avuto ruoli quanto meno equivoci e, visti al di fuori di un certo contesto, senz’altro esecrabili. Ed è esattamente nella zona grigia di cui dice Levi che si muove il protagonista de “La notte dei Girondini”, l’olandese Jacques Suasso Henriques, insegnante di storia presso l’unico Liceo Ebraico che i tedeschi permettono che esista ad Amsterdam. Suasso è un ebreo di origini portoghesi, un dettaglio che, nel 1943, non cambia praticamente nulla agli occhi dei nazisti. Lo sa bene il suo allievo Georg Cohn:“… perché nel 1703 c’era un Henriques che abitava ad Oporto. Le so dire quanto le servirà! […] Prima dell’estate setacceranno tutta Amsterdam. Lei conta di nascondersi?” Il ragazzino sembra conoscere il fatto suo e forse anche qualcosa in più. Per questo invita l’insegnante a diventare l’aiutante di suo padre, capo del Servizio d’Ordine ebraico nel campo di concentramento di Westerbork, nella provincia olandese del Drente, affinché diventi un uomo vero, un uomo forte e determinato e, soprattutto, un ebreo in meno da far salire sui treni per Auschwitz.
Suasso è un ebreo. Cohn è un ebreo. Entrambi si ritrovano al centro di quella zona grigia indagata spesso anche da Levi attraverso le sue opere. Sono ebrei ma sono al servizio diretto degli aguzzini tedeschi. Collaborano con loro, rastrellano altri ebrei, li catturano, li conducono al campo, stilano le liste e li chiudono nei treni piombati destinati ad arrivare nei campi di sterminio in Polonia. “O loro o io“, spiega Cohn padre a Suasso appena arrivato a Westerbork. Il principio appare infallibile. Se quel che c’è da fare non lo fa Cohn, lo farà sicuramente un altro ebreo al posto suo: “Che cosa vorresti fare? E che cosa posso fare io, che cosa possiamo fare noi, qui?“. Una domanda che fa da inciampo a migliaia di discussioni venute dopo la Shoah. Cosa potevano fare quegli ebrei che per non diventare vittime si sono tramutate in carnefici? Potevano davvero fare qualcosa? La loro era solo paura, viltà, meschinità? E se così fosse, basta tanto a giustificare la mutazione in carnefici e, quindi, la morte di tante persone?
“La notte dei Girondini” non è altro che il memoriale di Henriques. Ormai l’uomo si trova in una baracca, come tutti gli altri ebrei di Westerbork, in attesa di essere messo su un treno che lo condurrà allo sterminio. La sua posizione di aiutante dell’ebreo più potente del campo è compromessa. Non gli resta altro che ricordare e, per quel che serve, confessare le proprie colpe. Lo deve al nuovo se stesso, probabilmente. A quel nuovo sé affiorato grazie alle parole scambiate con Jeremia Hirsch, un insegnante di religione ebraica rinchiuso a Westerbork con la sua famiglia. L’ebreo occidentale, come spiega Levi nella premessa, è profondamente integrato con la cultura nazionale di cui è parte, “talmente intrecciato con la cultura del paese-ospite da non possedere, come è noto, una lingua propria. […] La figura dell’ebreo contento del suo ebraismo, a cui il suo ebraismo basta (l’immortale Tevie il lattivendolo, di Schalom Alechem), in Occidente è rara o manca“. E Suasso è un ebreo occidentale fatto e finito. Vive sotto un regime violento ed ostile e non sopporta il proprio ebraismo. Lo trova detestabile, scomodo e sconveniente. Molti ebrei occidentali sembrano aver scoperto la propria appartenenza religiosa solo dopo le persecuzioni naziste. Prima non faceva differenza, non era rilevante e, comunque, non aveva particolare valore.
“La notte dei Girondini” è un romanzo breve uscito nel 1957. Presser, il suo autore, è uno storico ebreo olandese che, durante il Nazismo, è riuscito a nascondersi e a sfuggire ai rastrellamenti. Nel 1975 Levi ha chiesto la pubblicazione di questo libro curandone personalmente la traduzione, poiché, seppur evidenziando la qualità non eccellente della narrazione che appare spesso un po’ troppo leziosa ed artefatta, riconosce al romanzo di Presser valori rilevantissimi. In primis la verosimiglianza della storia. Nonostante Presser non abbia mai fatto esperienza diretta, è riuscito a descrivere la deportazione in maniera impeccabile e veritiera. Inoltre, come ho scritto poco sopra, a “La notte dei Girondini” va il merito, secondo Levi, di essersi soffermato sulla crisi di identità dell’ebreo occidentale e, soprattutto, di aver analizzato, in maniera ancora nuova alla fine degli anni ’70, quella “zona grigia” che mescola e sovrappone vittime ed aguzzini.
Edizione esaminata e brevi note
Jacob Presser, “La notte dei Girondini“, Adelphi, 1997. Traduzione e prefazione di Primo Levi.
Pagine su Jabob Presser: Wikipedia / DoppioZero
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