Nei primi articoli e recensioni che sono seguiti alla pubblicazione del libro di Barbara Beneforti viene citata giustamente una frase significativa, presente a pagina diciassette: “A volte le cose fatte per rimedio riescono meglio di quelle fatte per volontà”. Espressione di quel buon senso popolare che, negli anni tra il moribondo Granducato di Toscana e il nuovo Regno d’Italia, appariva soffocato da autorità statali lontane e sopratutto disinteressate alla vita di un popolo di subalterni, quelli privi del diritto di voto. Una distanza e un’incomprensione che viene felicemente raffigurata nella “disertora”: questa è figlia di Ersilia, una giovanissima contadina di un paesino delle colline pistoiesi, che, sedotta e messa incinta da un certo Giobatta, accetta di sposare il fratello del suo seduttore. E da qui la frase sul “rimedio”; non fosse altro che grazie a questo espediente Luce, la “disertora” di Lupicciano, cresce in una sorta di famiglia allargata. Un soprannome, o forse una specie di stato d’animo, questo di “disertora”, che trova una sua spiegazione nei ricordi di Luce, ormai anziana, quando, nel 1915, l’Italia si predispone ad entrare in guerra. Ricordi che tornano al 1866, quando il neonato regno a guida piemontese si stava imbarcando nella sfortunata ed azzardata Terza guerra d’indipendenza. Da qui il déjà vu: la presenza di un potere, altrimenti assente, che vuole costringere, per almeno cinque anni, alla leva obbligatoria dei giovani contadini analfabeti; con la sola certezza, abbandonando i campi e la famiglia presente e futura, di tornare alla vita civile rovinati. Luce, ormai diventata “donna insieme a quel branco di fratelli per metà cugini o, se si vuole, di cugini per metà fratelli” (pp.19), incontra Vittorio Battisti detto il Tacca, uno strano tipo “che aveva vent’anni e gli occhi del lupo […] uno di quelli che vanno bene un paio di mesi alle figliole ma per le mamme era gramigna da strappare, una disgrazia da tenere lontano come il mal di denti” (pp.22). Il difetto di questo Tacca, se così si può dire, era quello di essere una testa calda, di avere – secondo i limitati parametri del tempo – idee “sovversive”; e soprattutto di non volersi adattare ad un destino di contadino. Uno spirito così non poteva certo accettare supinamente di fare il soldato per chissà quanti anni. In quel periodo infatti, quando le autorità del Regno si facevano vive per reclutare, non avevano remore ad intervenire con mezzi brutali e coercitivi, lasciando sul campo tentativi di mutilazione, di fuga, denunce per renitenza alla leva e abusi di potere con effetti spesso tragici (la storia di Loris Ballati). E’ a questo punto che emerge la “disertora”, ovvero Luce, che si sacrifica per evitare grossi guai al suo Tacca, disertore vero. Molti anni dopo, come anticipato, la situazione si ripresenta, con le autorità che reclamano il nipote Amerigo per un’altra guerra contro l’Austria: “Il tempo cambia tante cose, ma non queste” (pp.124). Una storia di fantasia ma pur sempre verosimile, ispirata da quanto contenuto nei fascicoli dei processi penali ai renitenti alla leva, attentamente consultati dall’autrice.
Ne è scaturita un’opera che si legge con estrema facilità, grazie ad uno stile spigliato, espressioni popolari, toscane, inserite nel testo senza che rimanga alcuna impressione di artificiosità, personaggi ben delineati che, proprio grazie alla loro natura popolare, rivelano, senza soluzione di continuità, l’umorismo e i drammi di un’esistenza da subalterni.
Un testo, secondo noi, pregevole dal punto di vista letterario, in parte discutibile se letto soltanto con l’occhio dello storico. E’ la stessa autrice che, nelle note finali, ha voluto citare quello che da molti è considerato un eroe moderno: “Il Tacca si chiama Vittorio in onore di Vittorio Arrigoni, operatore di pace, che ha pagato con la vita la sua passione per gli ultimi della terra” (pp.125). Emerge probabilmente l’idea di una rilettura del passato, nello specifico dello sfruttamento dei nuovi “italiani” da parte di autorità lontane e prive di qualsivoglia rispetto umano, con categorie del presente: “A destra c’erano i clericali che ce l’avevano a morte con la civiltà moderna e che boicottavano lo stato legale. Al centro c’erano tutte le razze possibili dei liberali, dai moderati ai repubblicani, che cercavano di fare il meglio possibile, soprattutto per loro stessi. A sinistra – forse senza accorgersene – c’era rimasto solo il popolo, lacero, affamato, analfabeta, che ogni tanto, in maniera a volte un po’ isterica, tirava fuori una serie di follie anarchiche e sovversive, senza alcun disegno in capo né alcun risultato degno di ricordo” (pp.61).
A voler essere precisi non è che la destra e la sinistra del 1866 fossero proprio così o soltanto così; ma una certa semplificazione di concetti e di concezioni del mondo non ci sembra poi tanto criticabile, soprattutto in un’opera dove parlano in prima persona dei personaggi tra i quali proprio il Tacca, capace a mala pena di leggere e scrivere, appare uno dei più “intellettuali”. Personaggi che, pur con tutti i loro limiti ma temprati dall’esperienza e dotati di incontestabile buon senso, si rivelano però capaci di prevedere il futuro. Così l’anziana Luce al nipote in partenza per il fronte: “E mi raccomando: guardati dai tedeschi che hai davanti ma guardati anche dagli italiani che ti stanno dietro, che i peggio di tutti sono i generali! Non te ne scordare” (pp.124).
Edizione esaminata e brevi note
Barbara Beneforti, nata a Firenze nel 1968. Si è laureata in Lettere con una tesi in dialettologia italiana. Vive e lavora a Pistoia. Ha pubblicato vari racconti, molti articoli e alcuni saggi su tradizioni popolari, dialetti e migrazioni. Ha collaborato con riviste e pubblicazioni di storia locale e linguistica. In ambito lavorativo, ha collaborato a diverse pubblicazioni su immigrazione, storia e cultura del popolo rom, tutela delle vittime di discriminazione. Nel 2011 ha scritto un romanzo, L’ultima stagione, ambientato nella seconda metà dell’Ottocento in Toscana.
Barbara Beneforti, “La disertora”, Iacobelli (collana I leggendari), Pavona di Albano Laziale 2016, pp. 132.
Luca Menichetti. Lankenauta, dicembre 2016
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