MÜLLER Herta

Lo sguardo estraneo

Pubblicato il: 9 Gennaio 2017

Un vecchio è seduto sulla panca davanti a casa sua e il vicino passa e gli domanda: Beh, che fai, stai seduto lì a pensare? E l’altro risponde: No, sto seduto qui e basta. Questa storiella è la descrizione più sintetica di cosa sia l’ovvietà. La conosco da vent’anni e da allora mi vado a sedere accanto al vecchio sulla panca. Ma ancora non sono riuscita a credergli fino in fondo.

Queste le ultime battute del breve saggio di Herta Müller Lo sguardo estraneo, ovvero la vita è un peto in un lampione, uscito in Germania in prima edizione nel 2003 presso Hanser Verlag e proposto da Sellerio nella traduzione del professor Mario Rubino. Il saggio illustra, con precisione ed essenza analitica quasi kantiana, la trasformazione psicologica che la protagonista subisce sotto l’influenza degli interrogatori reiterati dei servizi segreti romeni, nonché degli “incidenti” che si verificano nella sua vita a seguito, o come diretta conseguenza, di questi colloqui-tortura.
Punto d’arrivo di tale percorso distruttivo è l’insorgere di quel che l’autrice definisce lo “sguardo estraneo”, o “sguardo dal margine”, come suggerirebbe qualcun altro per la resa in italiano dell’espressione der fremde Blick. Uno sguardo che non appartiene più all’innocenza dell’infanzia, e che si acquisisce con la formazione somministrata dallo Stato comunista, che caratterizza coloro che mi pare opportuno definire dei veri e propri animali addestrati dal regime.

Da bambina, dunque, “quando non aveva ancora lo sguardo estraneo”, la protagonista-Herta Müller amava fare lunghe passeggiate in bicicletta nel suo villaggio, abitudine ripresa poi nella giovinezza quando, trasferitasi nella città di Timișoara, ebbe voglia di esplorarne i dintorni. Dopo poco tempo, ebbe un incidente stradale, evento apparentemente casuale. In realtà, esso era stato preannunciato, senza logica apparente, in uno degli interrogatori a cui veniva sottoposta: “Capitano anche degli incidenti stradali”, le aveva detto l’ufficiale dei servizi segreti, e, all’indomani dell’incidente, con la medesima apparente mancanza di coerenza con il resto del discorso, “Eh già, capitano davvero degli incidenti stradali”. Questo è solo uno degli esempi che l’autrice porta a dimostrazione di come eventi a prima vista accidentali (come la tinta dal parrucchiere che le corrode il cuoio capelluto, o l’inspiegabile spostamento all’interno della casa di un biglietto appeso alla maniglia della porta) si inseriscano in una sintassi coerente e invasiva, i cui tratti specifici si trasferiranno sull’individuo stesso e sulla sua psiche. Vediamo come.

Le cose intorno a lei, dice l’autrice, cominciano a perdere “l’unitarietà con se stesse”. L’appartamento, gli oggetti del suo paesaggio quotidiano cominciano a diventare “cose insignificanti che gettano ombre assai significative”. Si ingenera nella protagonista l’abitudine a ispezionare la propria casa per individuarne i cambiamenti, le modifiche allo stato abituale. E qui la sorpresa: invece di mantenere l’ambiente più familiare, queste “operazioni di controllo” lo rendono ancora più estraneo e quel che preoccupa è il fatto di non essere in grado di situare nel tempo tali mutamenti accidentali: “Che una sedia della camera fosse stata portata in cucina era qualcosa che non poteva sfuggire. Ma nel caso di piccoli spostamenti, quando li scoprivo, non sapevo se risalivano a quello stesso giorno o al giorno precedente o a parecchi giorni prima, senza che li avessi notati.” Quel che conta rimane invisibile, mentre saltano agli occhi unicamente le tracce da esso lasciate, che si staccano dal resto come “crisalidi continuamente cangianti”.

La mente del soggetto posto di fronte a questa continua ispezione diviene quasi un elaboratore elettronico che costantemente lavora per tentare di collegare cose ed eventi, sfiorando a volte la follia, “con un sensorio che ti brucia di dentro con un continuo guizzare”. Si brancola nel buio, e ci si allena a pensare e a riflettere entro limiti temporali circoscritti, sopravvivendo “da un oggi ad un altro”, ovvero sulla base di quegli elementi noti un giorno, e il giorno seguente mutati, seppur impercettibilmente, quindi nuovi. Un mondo chiuso, in cui è impossibile andare avanti, in cui ogni giorno si deve imparare a vivere da capo, in una vera e propria “scuola di portamento”. Impossibile esaminare periodi di tempo lunghi, questo l’autrice imparerà a farlo solo una volta emigrata in Germania.

L’attenzione addestrata a cogliere impercettibili mutamenti esterni diviene solida percezione del presente, producendo, in maniera naturale, la percezione aumentata di sé. L’essere continuamente osservati e seguiti, infatti, porta anche a un ripiegamento interlocutorio su se stessi, a un’osservazione al dettaglio di sé, che è circospezione e colloca la vita e la giornata “su una sorta di carta millimetrata”. Interessante, a questo proposito, la considerazione sull’espressione “dare un’occhiata”, impossibile in una vita del genere. E’ impossibile guardare distrattamente qualcosa, non è pensabile vedere senza avere una percezione verticale e profonda delle cose. Vedere equivale a dare un senso alle cose e a capire.

In questo esercizio della coscienza e dell’inconscio, il persecutore, colui che dispone e trasforma il vissuto interiore della vittima, amplifica la sua azione tramite ogni oggetto privato che le appartiene (la bicicletta, la tintura di capelli, la maniglia della porta), personificandosi in essi. Ne consegue che l’atto di persecuzione è costante e avviene “faccia a faccia”, è uno spiarsi reciproco tra persecutore e perseguitato, una “circolarità chiusa e incoercibile”, un osservarsi di due essenze che si esaminano e interagiscono. Interagire, sì, poiché non è mai prudente pronunciare la parola NO, rispondendo a un interrogatorio. Sempre meglio “discutere”, cercando di attenersi ai “teoremi” illustrati dal persecutore, e parlare il più possibile, per evitare che questi ne sviluppi di altri, più assurdi, che possono ridurre la tua capacità di argomentazione. Essere lucidi, dunque, lucidi e distaccati, partecipare all’interrogatorio con tutta la testa e con tutta la testa tenersene fuori, focalizzarsi sull’interazione continua con l’accusatore, perché le pause lo mandano in collera e ne “rovinano l’opinione che ha di sé”. Si sviluppano identità diverse di se stessi, ognuna prodotta da una diversa situazione proposta dall’accusatore. Ci si abitua così a un esercizio di estraneità al reale. Al termine di ogni dialogo interattivo, rimangono in testa frammenti di tante identità diverse, e la propria vera identità ne risulta turbata, distrutta (1). Il circuito magnetico che si crea nel corso degli interrogatori con il proprio accusatore diviene allora indispensabile e fonte di sostegno. Bisogna assumere la medesima forza e impertinenza di quel circuito, di quello sguardo, per sopravvivere.

Nel relazionarsi con sguardi appartenenti a un mondo diverso da quello del Paese in cui si è vissuti, lo sguardo estraneo assume una nuova consapevolezza: impara a parlare di sé, a comprendere cos’è che lo distingue dagli altri sguardi “integri”, e in questo ha generato già uno sguardo sullo sguardo. E’ uno sguardo che si autogenera, dando luogo a infiniti sguardi su di sé.

In Germania, ovvero il nuovo ambiente in cui si trova a vivere dalla fine degli anni Ottanta, lo sguardo estraneo di Herta Müller viene ascritto al fatto di essere arrivata da un altro Paese, e di trovarsi, dunque, di fronte a una realtà a lei sconosciuta, quindi estranea. Altri attribuiscono invece alla sua indole “contestataria” quello sguardo, e che non c’era da stupirsi se in Romania era stata perseguitata. In realtà, precisa la Müller, quello sguardo lei se lo portava dietro dalla Romania, dove ogni cosa le era nota, ed è stata la dittatura a determinare l’insorgere di questa maniera inusitata di guardare alla realtà e alle persone. Né, per altro, è da attribuire lo sguardo estraneo alla condizione dello scrittore o dell’intellettuale, che, a detta di alcuni esponenti di questa categoria, sarebbero in possesso di una “tecnica” particolare e innata nel sentire e descrivere la realtà, mentre invece si compiacciono solamente “di fare ammirare la loro pretesa singolarità, come se fosse una lamella d’oro” e “mettono in vendita lo sguardo estraneo come una dote”. In realtà, afferma l’autrice, lo sguardo estraneo non ha nulla a che fare con il fatto di scrivere, ma riguarda il proprio vissuto e la quotidianità. E qui Herta Müller ricorda un frammento della vita di sua madre, deportata in un campo di lavoro in Ucraina nel 1945. In questo periodo la madre aveva sviluppato un rapporto di amore-odio con quello che era la sua principale fonte di sostentamento: le patate. “Per via delle patate, che non bastavano mai, fu spinta alla fame cronica. E furono le patate, quando s’era ridotta pelle e ossa, a farla tornare liscia e pasciuta. […] Nessun’altra persona, quando mangia patate, ha lo stesso sguardo che ha lei, questo modo di respirare del quale, per quanto a lungo si cerchi fra i termini del linguaggio, non esiste la definizione tra repulsione e golosità”. A distanza di anni la madre vive, ad ogni patata che mangia, la possibilità di “passare dalla vita alla morte o viceversa”.

La patata, una cosa familiare e parte della quotidianità del vivere, viene dunque privata della propria “ovvietà”, viene privata della propria natura e diviene “estranea”, generando un comportamento distorto.

Proprio vero: “nessuno è disposto a rinunciare all’ovvietà, ognuno dipende da cose che restano docili a sua disposizione”. Cose in cui non ci si può rispecchiare. Altrimenti si cade nell’abisso della perenne percezione di sé, in un incesto con la realtà circostante e in un “adulterio con la propria persona”.

L’analisi compiuta dall’autrice sullo sguardo estraneo è, direi, analisi di una condizione universale che riguarda parimenti comuni cittadini, intellettuali, e così via, tutti coloro che sono stati soggetti alla persecuzione psicologica della dittatura. Tale condizione perdura negli anni, valicando la caduta dei regimi e l’avvento di “libertà” e democrazie, installandosi, sedimentandosi nel pensare quotidiano, nel sentire, nelle azioni, allenando la persona ad un vero e proprio “stato di allarme” perenne, e a una comprensione della realtà molto più profonda e clinica di quanti, invece, hanno vissuto un’intera vita in Occidente, per i quali determinati aspetti della realtà risultano scontati, ovvi, “integri”. Dice Herta Müller: “[Lo sguardo estraneo] Spiana volti e gesti di sconosciuti, pervenendo a rapide constatazioni, come si è esercitato a fare per anni e anni: gli basta un’occhiata e ha già incorporato la decifrazione.” E ancora: “Lo sguardo estraneo si mette aggressivamente in difesa, senza che ce ne sia alcuna necessità. Ha bisogno dello stato di allarme cui è abituato, della continua irritazione in brevi cadenze”. Poi “Non ce lo si può accattivare, dal momento che esso mescola con la sua vita passata gente che non ha nulla a che farci. […] Esso somiglia alle cose del suo mondo sotto sorveglianza d’un tempo.”

In sintesi: chi è vissuto in dittatura si chiederà sempre perché il vecchio sta seduto sulla panca. E non per forza gli crederà.

Il volume include alcune immagini delle poesie-collage a cui Herta Müller è così affezionata, di cui mi piace riportarne una:
“mi giro/e mi guardo/starei così volentieri sotto la riga/vicino al naso morto di papà/mi immagino un merlo/che vola intorno e si guarda in giro/non lontano da sé/il capo dentro il bavero nero/un po’ muoio un po’ canto/di traverso il suicidio e a memoria/lo si afferra e non lo si ha/non ne resta molto di sostanziale/terra nascosta veloce/e l’erba centinodia a filigrana”.

(1) In riferimento allo stile della Müller, Adriano Sofri, nella prefazione al volume, intitolata “Fermo immagine”, rileva: “La scrittura di Herta è rotta e slegata (slegato è aggettivo decisivo in lei), e non solo la scrittura, ma l’esistenza intera, le notti e i giorni. Sul suo spartito, il tempo è spezzato, la successione è dirottata, la trama è perduta e le parti stanno senza nessi, senza cuciture, strappate. […] anche i dialoghi sono brevi e frantumati, un caleidoscopio di forme e colori smaglianti che non si configurano più.”

Edizione esaminata e brevi note

Herta Müller (Niţchidorf, distretto di Timiş, Romania, 1953), scrittrice romena di lingua tedesca. Dopo gli studi universitari a Timişoara ha lavorato come traduttrice e insegnante. Nel 1987 è emigrata a Berlino, dove vive tuttora. Nel 2009 riceve il Premio Nobel per la Letteratura.
In italiano: Bassure (Editori Riuniti 1987, Feltrinelli 2010); In viaggio su una gamba sola (Marsilio 1992, 2009); Il paese delle prugne verdi (Keller 2008); Lo sguardo estraneo (Sellerio 2009); Cristina e il suo doppio (Sellerio 2010); In trappola (Sellerio 2010); L’altalena del respiro (Feltrinelli 2010); Il re s’inchina e uccide (Keller 2011); Oggi avrei preferito non incontrarmi (Feltrinelli 2011); Il fiore rosso e il bastone (Keller 2012); Essere o non essere Ion (Transeuropa 2012); La paura non può dormire. Riflessioni sulla violenza del secolo scorso (Feltrinelli 2012); L’uomo è un grande fagiano nel mondo (Feltrinelli 2014); La mia patria era un seme di mela. Una conversazione con Angelika Klammer (Feltrinelli 2015). E inoltre Herta Müller. Un incontro italiano, di Gabriella Lepre (Avagliano, 2009).

Herta Müller, “Lo sguardo estraneo, ovvero la vita è un peto in un lampione”, Sellerio editore, Palermo 2009. Traduzione di Mario Rubino. Con una nota di Adriano Sofri.

In copertina: Illustrazione tratta dall’edizione originale tedesca

Prima edizione: Der Fremde Blick oder Das Leben ist ein Furz in der Laterne”, Carl Hanser Verlag, Monaco/Vienna, 2003

Approfondimento in rete: Metropolis / Liberal / Reti di Dedalus /Liquida / Giornale di Brescia

In Lankenauta (Lankelot): Intervista a Herta Müller di Gabriela Adameșteanu, 2003

Anita Bernacchia. Gennaio 2017.