La ribellione negli occhi del fanciullo. Prima ancora nel sogno, nelle sequenze oniriche notturne, quando noncurante del gelo, Qiang, bambino di quattro anni costretto in un asilo dall’educazione rigida, si diverte a passeggiare nudo lungo la neve e a far la pipì. Quanti problemi per Qiang, uno dei pochi bambini che ancora non riesce a vestirsi da solo, a far la cacca in orario, ad accettare le regole che le maestre prescrivono, identiche per ognuno.
Un asilo statale simile ad una caserma. Siamo nella Cina della fine anni Quaranta (quando Mao proclamò la Repubblica Popolare Cinese), irreggimentata quanto basta fin dall’educazione della primissima infanzia. Tanti bambini, tutti tra i quattro e cinque anni, simil soldatini, forgiati da severe maestre che tendono ad uniformare tutto e tutti. Dicevamo di Qiang, certamente un bimbo disadattato, si potrebbe pensare; lo si potrebbe pensare per il suo essere sopra le righe, per il suo fantasticare un mondo in cui la maestra è un mostro che mangia i bambini, con tanto di coda. Tanto riesce a suggestionare gli altri suoi coetanei che si innesca una vera e propria caccia alla coda: tutti coloro che sono malvagi come la maestra devono averla per forza. Una volta scoperto il gioco da parte degli insegnanti, la punizione per Qiang si rivela più che mai severa. Lo si isola e lo si rinchiude addirittura in una stanza buia: “Se continui cosi per te da grande ci sarà il carcere” – gli si dice. Qiang aveva cominciato a provare anche le prime, innocentissime pulsioni verso l’altro sesso, verso l’amichetta con la quale teorizzava, per poi metterli in pratica, i giochi fantasiosi che li aiutavano ad isolarsi da un contesto fortemente prescrittivo. Ricondotto in gruppo, dopo qualche giorno di punizione, Qiang non è più lo stesso bambino di prima e accentua il suo carattere ribelle e molesto, fino a isolarsi per non essere più trovato.
C’è chi ha scomodato Vigo (Zero in condotta) o Truffaut (I 400 colpi) per quest’opera delicata e lineare – a tratti anche monotona, ma mai sconfinando nel tedio o generando disinteresse – del cinese Zhang Yuan (lo ricordiamo per Diciassette anni, opera interessante del 1999). Le affinità tematiche ci sono: la ribellione del bimbo nei confronti dell’istituzione scolastica, l’istituzione come elemento che irreggimenta e che tarpa le ali alla fantasia, al crescere puro, intimo e naturale del bimbo, in accoglienza del mondo e delle istanze che esso genera in lui. La ribellione è un atto di rivolta, a qualsiasi età e contro qualunque sistema di regole rigide e immutabili. Questo è quanto. Oltre meglio non creare facili parallelismi, perché le opere di Truffaut e Vigo hanno una forza espressiva e narrativa che La guerra dei fiori rossi non possiede, per i motivi sopra esposti (cinema un po’ monocorde), ma non solo. Eppure il film di Zhang Yuan si lascia ben guardare, tocca un tema importante in ogni epoca come l’educazione scolastica primaria dei bambini e propone una chiave di lettura che trovo – da educatore – più che condivisibile: più un bambino difficile viene ostracizzato, combattuto, emarginato, punito e reso “colpevole” della sua diversità-devianza, più si alimenta in lui la coscienza di una diversità che, in tenera età, è percepita come un male, come un errore assoluto, come un punto di non ritorno. Ma voglio spiegarmi meglio: se diamo ad un bambino ripetutamente l’idea che egli sia sbagliato, disadattato e deviante, e se in conseguenza di ciò lo puniremo sempre e diversamente dagli altri per le sue presunte colpe, non faremo altro che generare in lui una consapevolezza sempre più crescente nel tempo, ossia che tutto ciò sia vero e immutabile. In sostanza, e scusatemi se su questo sono categorico, è l’istituzione scolastica che – quando è evidentemente fallace, come nel caso in questione – spesso genera o alimenta personalità che non trovano il giusto adattamento, una volta adulte. Questo sembra voler fotografare Yuan, ancorché, come ripeto, sia tutto un po’ troppo orizzontale, senza grandi picchi emotivi e senza gli auspicati sussulti. Si resta forse nell’attesa di un epilogo forte che invece non arriva, che preferisce rimanere sospeso e vagamente simbolico, sostanzialmente in linea con il tipo di narrazione scelta.
I fiori rossi del titolo sono il premio che i bimbi ricevono ad ogni azione eseguita correttamente; sono, o dovrebbero essere, il simbolo della competizione che si vuol favorire tra i piccoli, cosi incentivati a comportarsi secondo le regole. Qiang ovviamente non ne conquista nessuno, non sapendo nemmeno vestirsi da solo e facendo pipì a letto quasi ogni notte. Ma è un bimbo, e come tutti quelli della sua età aspira anche lui ai fiori rossi, i quali però finiscono fin troppo presto in secondo piano, sempre stando al titolo, non innescando affatto quella guerra competitiva che sempre il titolo aveva lasciato intendere. Oltre alla staticità narrativa, l’imputazione che è più spesso giunta a Yuan è quella di aver indugiato fin troppo sulle nudità dei bimbi, esposte continuamente lungo tutto l’arco della pellicola. Il solito problema: e se i pedofili… Chiariamoci una volta per tutte, signori, qui il problema andrebbe rovesciato, ed è inutile voler cercare la malafede dove non esiste. Il problema non è che si fanno film con bambini nudi, i quali dovrebbero generare, in persone sane di mente, tenerezza e purezza e non libidine. Se in qualche mente distorta le nudità dei bimbi generano, al contrario, pulsioni sessuali irrefrenabili, il problema non è di chi le mostra con fine pedagogico-narrativo, ma di chi le guarda con “occhi sbagliati”, per usare un eufemismo.
Molta Italia nel film, dal montaggio alle musiche, vista la scelta di una coproduzione della pellicola che trova proprio Italia e Cina protagoniste. I bambini sono tutti bravissimi, ma una nota di merito va al piccolo protagonista, davvero espressivo, capace di orientare narrativamente una pellicola che è molto più giocata sui volti – non solo dei fanciulli: vedere la buffa simulazione di uno scimpanzé da parte della maestra – che sui dialoghi, sempre attenta a mantenere un equilibrio visivo che privilegi la superficie della vicenda raccontata. Presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Berlino, La guerra dei fiori rossi, tratto dal romanzo semi-autobiografico di Wang Shuo, è un delicato atto d’accusa contro la follia e la miopia dei sistemi educativi rigidi – ma efficacemente estendibile a qualsiasi tipo di sistema coercitivo -, naturalmente gestiti da adulti che, irreggimentati a loro volta, sono più vicini alle marionette che agli esseri umani. Ed è evidente come Zhang Yuan, con l’opera in questione, abbia voluto fotografare la sensazione d’angoscia che la dittatura maoista avrebbe insinuato, già dalla primissima infanzia, in tutte le generazioni a venire.
Federico Magi, febbraio 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Zhang Yuan. Soggetto: da un romanzo di Wang Shuo. Sceneggiatura: Zhang Yuan. Fotografia: Yang Gao. Scenografia: Huo Tingxiao. Costumi: Huang Baorong, Zhao Zhibin, Wang Hao, Zhu Meiling, Zheng Yujuan, Huo Feng, Sun Yujia, Du Ma, Lu Runqiu, Wang Ziye, Liu Lian. Montaggio: Jacopo Quadri. Interpreti: Dong Bowen, Ning Yuanyuan, Chen Manyuan, Zhao Rui, Li Xiaofeng. Musica originale: Carlo Crivelli. Titolo originale: “Kangshangqu Henmei”. Origine: Cina /Italia, 2006. Durata: 92 minuti.
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