Davvero difficile dare una valutazione complessiva dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, già salito alla ribalta per il precedente e premiatissimo Le conseguenze dell’amore. Difficile perché l’opera in questione, presentata a Cannes lo scorso anno con pessima accoglienza della critica, è stata rimontata e dunque proposta, qualche mese dopo il passaggio alla Croisette, al pubblico delle sale italiane. Che non ha gradito altrettanto. Difficile perché solo alla seconda visione della pellicola, a distanza di tempo, ne sono riuscito a cogliere la complessità strutturale, tecnica e artistica, a dispetto di una storia che ha continuato a non convincermi. Una storia che ha del grottesco nel suo esibire un dramma “morale” pieno di paradossi, insinuando dubbi e perplessità nello spettatore, volendo descrivere le bassezze della natura umana.
Sabaudia, Agro Pontino. Geremia (Giacomo Rizzo) è un usuraio, molto avanti con l’età e dall’aspetto orribile, che vive in una casa cadente insieme ad una madre decrepita e paralitica. Non ha amici né tanto meno donne, ma si proclama benefattore e “amico particolare” delle famiglie cui presta i soldi a strozzo, con tassi d’interesse altissimi. È parsimonioso e tirchio fino al midollo (ricorda l’ebreo usuraio Shylok di shakespiriana memoria, ma anche il Fagin di Dickens, ne Le avventure di Oliver Twist), nonostante i numerosi denari che tiene in cassette di sicurezza. Si accompagna ad un italico cowboy (Fabrizio Bentivoglio) solitario e amante del country, il quale lo tiene informato sull’agire delle persone sulle quali il vecchio ha, per così dire, investito. Geremia è spietato, nonostante il modo affabile con cui accoglie i disperati aventi bisogno di denaro; in casi estremi, aiutato da due fratelli al suo soldo, non esita a dare la morte, chiunque sia il malcapitato non solvente. Tra coloro ai quali Geremia ha “prestato la sua opera” c’è una famiglia che si è indebitata per consentire alla figlia un matrimonio decente. Lei è Rosalba (Laura Chiatti), miss Agro Pontino, aspirante ballerina, che se ne sarebbe pure fregata del matrimonio con duecento invitati. Compreso in breve tempo il potere di ricatto di Geremia, Rosalba, avendo notato l’interesse del vecchio usuraio nei suoi confronti, gli si concede. Lui se ne innamora, e perde la ragione che gli aveva consentito di accumulare i soldi per una vita, lanciandosi in un affare oneroso molto oltre le sue possibilità. Rosalba intanto gli si concede ancora, lo rigira facendo leva sulla propria lucente bellezza, e dopo averlo umiliato più volte gli dice di amarlo. È un inganno evidente, che farà perdere a Geremia tutto il suo denaro. Nonostante ciò, tardivamente compreso l’inganno perpetrato ai suoi danni e dopo aver perso anche la madre, il disgustoso strozzino sarà ancor più consapevole della propria natura, del fatto che per un tipo come lui il limite non può esistere.
Per certi versi è un un film davvero fastidioso, perché ci fa la morale e ce la fa secondo stereotipi abbastanza consueti, credendo invece di aver detto chissà cosa. A livello di sceneggiatura il film fa acqua da tutte le parti, mescola il noir, il grottesco e la critica di costume senza trovare unità narrativa, né il coinvolgimento emotivo degli spettatori. L’unico personaggio ben caratterizzato è proprio Geremia il quale, nell’abile interpretazione di Giacomo Rizzo, restituisce una moltitudine di sensazioni: tutte assai disturbanti in superficie, nascondendo sotto l’orrore fisico e le ignobili gesta una sorta di saggezza, diciamo pure di spessore che gli altri personaggi, pur notevolmente più aggraziati, sembrano non possedere. Quello che invece funziona e si pone ad evidenza dello spettatore è l’uso della tecnica visiva e la scansione dei tempi cinematografici del regista napoletano, il quale dimostra una qualità e una dimestichezza col mezzo non comune ai registi italiani di ultima generazione. L’incipit e la chiusura, ma anche alcuni passaggi visivi denotano una scelta delle inquadrature, della fotografia e del montaggio che sono degne di un abile regista, di un grande sperimentatore. E questo è un pregio non da poco, perché in Italia c’è assenza totale di gente che osa, di un cinema visionario come quello che L’amico di famiglia comunque propone restituendo qualcosa di piacevolmente alternativo. Il problema che evidenzia il regista napoletano, nella pellicola in questione quanto mai evidente, è la inadeguatezza nel tracciar la storia proposta, dovuta alla solita inconsistenza di scrittura propria ad altri cineasti nostrani i quali, dopo 2-3 film sufficientemente riusciti, si sentono già Bergman e Truffaut. È il caso di Sorrentino, che scrive soggetto e sceneggiatura credendo – un poco presuntuosamente – di poter partorire una grande opera. Ne abbiamo parlato altrove, riferendoci al cinema italiano: siamo carenti di scrittori, di gente che metta in mano a pur bravi registi sceneggiature degne di questo nome. E qui, nel caso de L’amico di famiglia, non ci sarebbe voluto troppo sforzo interpretativo per assecondare l’ispirata vena immaginifica di Sorrentino, purtroppo annacquata e a tratti perduta in una storia che ha sempre, pesantemente, il limite d’essere troppo provinciale oltre che sgangherata, affatto adatta ad un pubblico d’oltre confine, come ha dimostrato la pessima accoglienza a Cannes. Il film peraltro è stato un fiasco pure in Italia, se lo paragoniamo all’ottima tenuta nelle sale dell’opera precedente. Un vero peccato, si doveva e poteva fare meglio.
Oltre alla regia, ciò che convince di più è la recitazione dei due protagonisti – Bentivoglio, invece, è sempre troppo compassato e monocorde -, davvero una sorta di confronto senza lieto fine tra la bella e la bestia. Laura Chiatti è bellissima, è amore a prima vista, e non è difficile capire il motivo per il quale uno come Geremia, pur accorto, perda tutto per lei. Ma oltre che bella, tirando via una montagna di possibili pregiudizi, la Chiatti è anche brava, davvero convincente nel ruolo freddo e calcolatore che Sorrentino le affida. Stesso discorso, come già accennato in precedenza, è possibile farlo per Giacomo Rizzo, assolutamente a suo agio in una veste ingrata solo in apparenza, che gli ha consentito di fornire una prova complessa e sfaccettata, ricondotta ad un’unità che convince, non potendo avvincere, visto il ruolo incarnato e la storia proposta. Dopo aver esaltato, nelle due precedenti pellicole, la verve recitativa di Tony Servillo, Sorrentino dimostra di essere un ottimo direttore-valorizzatore d’attori. Ambedue sono stati candidati ai Nastri d’argento, come miglior attore e miglior attrice protagonista. Quello che sconcerta, semmai, è che pure il soggetto è stato candidato: misteri della critica ufficiale nostrana.
L’amico di famiglia è un’opera, in buona sostanza, che palesa una sconcertante mancanza di equilibrio: troppo spezzettato e con passaggi poco chiari, troppo brevi o approssimativi. Manca la misura e l’unità raggiunta con Le conseguenze dell’amore, film connotato da minori virtuosismi di macchina ma notevolmente più compatto rispetto ad una pellicola che non nasconde ambizioni autoriali e un po’ di narcisismo stilistico ma che non raggiunge né il cuore e né il cervello dello spettatore. Giudizio sospeso e brusca frenata per Sorrentino, il quale se non altro dimostra di avere la possibilità di spaziare tra i generi: musica, montaggio e inquadrature cosi assemblate gli aprono prospettive da thriller-horror d’autore. E, tutto sommato, perché non auguragli un’incursione nel film di genere, vista la pessima vena di Dario Argento, in crisi artistica ormai da anni, e l’inconsistenza dei pochi registi nostrani che si cimentano in questo tipo di opere? Ci pensi Sorrentino, non è affatto una cattiva idea.
Federico Magi, giugno 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Paolo Sorrentino. Soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino. Direttore della fotografia: Luca Bigazzi. Scenografia: Lino Fiorito. Costumi: Ortensia De Francesco. Montaggio: Giogiò Franchini. Interpreti principali: Giacomo Rizzo, Laura Chiatti, Fabrizio Bentivoglio, Gigi Angelillo, Clara Bindi, Barbara Valmorin, Marco Giallini, Alina Nedelea, Roberta Fiorentini, Elias Schilton, Lorenzo Gioielli. Musica originale: Teho Teardo. Produzione: Domenico Procacci, Francesca Cima, Nicola Giuliano per Fandango e Indigo Film, Babe Films, in collaborazione con Medusa Film e SKY. Origine: Italia, 2006. Durata: 110 minuti.
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